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Vikings 4x15: All his Angels

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Trovare il coraggio di fare una scelta radicale, per quanto necessaria, portarla avanti fino in fondo e affidarsi alla benevolenza del pubblico, confidando che non rinunci a proseguire l'avventura cominciata tanti anni prima: con All His Angels, Vikings fa un salto nel buio proiettando tutte le sue speranze nella nuova generazione, ricca di personaggi straordinari che fra mito e leggenda potrebbero dare moltissimo alla serie, ma allo stesso privandosi della sua colonna più importante. 
I lettori non in pari con gli episodi della quarta stagione si fermino qui, perchè quanto accaduto ha un'importanza troppo capitale per poter essere occultato.


Per tutti gli altri, il momento della riflessione sulla potenza di questo episodio non si è ancora esaurito: Ragnar Lothbrok, l'Ulisse del popolo vichingo, l'uomo che con la sua ambizione aveva cambiato per sempre il proprio destino e quello del suo popolo, si è congedato per sempre dal suo pubblico con una morte degna della leggenda che ancora oggi anima il suo nome, gettato in una fossa di serpenti per volere di Re Aelle ma con la benedizione di Re Ecbert, che osserva da lontano la fine del suo rivale e amico ignaro delle conseguenze del suo gesto.

Che Ragnar fosse destinato a lasciare la serie era nell'aria da tempo: stanco e segnato dalle tante imprese e dal troppo sangue versato il suo personaggio era ormai diventato l'ombra di sè stesso, incapace di reggere il paragone con ciò che era stato e di portare il suo popolo verso il futuro: accettando la propria morte e lasciando ai figli l'eredità della vendetta, il Re compie il gesto più grande non solo per il bene della sua famiglia ma anche di tutti i suoi sudditi. 

Una morte da antico guerriero, per un uomo troppo moderno per il suo tempo che ha visto e conosciuto troppo per continuare a credere nelle tradizioni del passato: i cancelli del Valhalla e del Paradiso forse non si spalancheranno per lui, ma egli ha plasmato e deciso il suo destino seguendo solo il suo ingegno, la sua intelligenza, la sua grande determinazione; i flashback che lo accompagnano al momento della fine ci mostrano quanto è stato raggiunto e quanto sacrificato, nella vita di Ragnar quanto negli affetti del pubblico.

Che cosa ne sarà di Vikings ora che il suo carismatico protagonista ci ha lasciati? Il rischio che la serie non riesca a reggere il colpo è molto elevato, ma la leggenda di Ragnar potrebbe continuare a vivere nello spirito implacabile dei suoi figli, animati dal suo stesso spirito di scoperta e avventura (Bjorn e il suo viaggio nel Mediterraneo) quanto dalla stessa necessaria spietatezza (Ivar). I dubbi sono molti, ma la nostra fiducia lo è altrettanto. 

Sherlock 4x01: The Six Thatchers

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Dopo due anni di iato e di hype alle stelle (l'apporto dato dallo speciale natalizio alla progressione della trama orizzontale non è stato irrilevante ma comunque minimale), Sherlockè finalmente tornato in onda sulla BBC e di riflesso, appena 24 ore dopo la messa in onda, reso disponibile con tempismo ammirevole sull'ormai amatissima piattaforma di Netflix: Martin Freeman e Benedict Cumberbatch hanno visto volare alto le loro carriere, la febbre scatenata dalla serie di Steven Moffat e Mark Gatiss è passata da tempo lasciando il posto a nuove e più fresche mode televisive, ma il nostro amore nei confronti del grande Detective e dell'adattamento contemporaneo e pur leale verso il Canone delle sue storie non è mai venuto meno; scritto da Mark Gatiss, incaricato ancora una volta di risvegliare i personaggi creati da Sir Arthur Conan Doyle dal loro lungo sonno, The Six Thatchers si ancora saldamente allo spunto letterario dell'avventura dei Sei Napoleoni intrecciandola a un plot originale e necessario (era difficile immaginare che gli eventi di A.G.R.A. rimanessero silenti ancora a lungo), cucito il più possibile addosso a quei personaggi che non potevano e non dovevano restare gli stessi individui conosciuti all'epoca di a Study in Pink.

L'amore e l'amicizia hanno risvegliato in Sherlock un'umanità che il nostro credeva di poter opportunamente cancellare e che mai si sarebbe aspettato di voler possedere, finendo per mettere alla prova non solo la sua volontà di gestire al meglio tale nuova sensibilità ma anche quella di chi desiderava con tutto il cuore difendere la normalità dei propri sentimenti, ritrovandosi invece affascinato dal ricordo di un'esistenza imprevedibile e priva di affetti: nel bel mezzo di un intrigo spionistico un po' avvitato ma non più cervellotico del solito, Mary inciampa nel retaggio del suo passato e del colpo di pistola di his last vow, sparato con freddezza giustificata ma mai davvero compresa e perdonata, mentre annoiato dalla semplicità della nuova realtà paterna e domestica Watson si permette per un attimo di abbandonarsi alla debolezza di una fantasia priva di rigurgiti e pianti notturni di bambino, quando l'unica cosa a tenerlo sveglio era l'ebbrezza di una nuovo caso da risolvere con Sherlock e le donne non si trattenevano nella sua vita mai troppo a lungo.

In un modo o nell'altro, tutti pagheranno in un plot twist finale prevedibile e atteso (come da canone, gli unici dubbi erano il quando e il come) che pecca forse di melodrammaticità e ovvietà, ma che si rivela la migliore soluzione possibile per permettere ai personaggi di uscire da un equilibrio stagnante e restare immobili troppo a lungo, incalzati dal dolore ma egualmente fedeli a stessi per affrontare la nuova minaccia di cui ancora poco o nulla conosciamo ma che sembra condurre a un'unica inquietante meta; l'appuntamento con La Morte, che paziente attende il Mercante nella città di Samarcanda.

I riferimenti al canon più o meno sottili non mancano, Il Caso di puntata tiene banco con una risoluzione più classica di quel che sembra e in puro stile Gatiss (da sempre più semplice e meno vivace nella narrazione del temibile Moff), mentre humour e dramma si consumano insieme e le deduzioni passano dall'essere un gradevole divertissement al divenire un pericoloso innesco mortale: Sherlock è tornato e la ricetta del suo successo è ancora lì, resistente al tempo e alla stanchezza, in barba alle imperfezioni e alle più ingombranti aspettative.

Leggi su cinefilos/serietv: Sherlock 4×01 recensione di Le sei Thatcher

Neruda

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"A questa persecuzione manca il terrore."

Raccontare la vita di Pablo Neruda senza cadere nella mera agiografia, rendere omaggio al Poeta e alla sua opera senza soffermarsi soltanto sulla sua produzione più sensuale e sanguigna, universalmente conosciuta anche alle orecchie di chi è meno avvezzo alla poesia, bensì affidandosi alla più scatenata sperimentazione: un semplice biopic non sarebbe stato sufficiente per contenere l'ambiziosa visione di Pablo Larrain, regista cileno determinato a esaltare il legame fra l'anima del suo Paese e quella del suo cittadino più illustre e amato in una contaminatio di generi che passa per il noir e la detective story con un tocco di romanzo picaresco, per generare con cuore e intelligenza non solo un  sentito omaggio a Neruda e all'incanto della sua Patria disgraziata, ma anche alla capacità dell'essere umano di liberare il potere del racconto oltre il mezzo che vorrebbe limitarlo, trascendendo la parola scritta e persino la duttilità del mezzo cinematografico per salvarci dal tedio di una quotidianità che rischia di divorarci e distruggerci da dentro.

Pablo contro lo Stato, Pablo contro il Poliziotto che gli dà la caccia, Pablo contro Pablo: il rocambolesco e surreale duello di intrecci che vede Neruda sfuggire sempre per un soffio alla sua nemesi Oscar Peluchonneau viene combattuto dal regista con una messa in scena luminosa e aggraziata, tanto nelle lunghe panoramiche all'aperto quanto nel ristretto universo di fogli e oggetti che riempie la prigionia del Poeta, nel mezzo di un Cile che ama il calore della musica e dei Caffè nelle piazze come il gelo e la durezza della sue alte Montagne, le maestose regine aspre e inclementi che nel silenzio della neve urlano il loro innato romanticismo.

Un popolo di volti sconosciuti che attendeva di essere riempito di poesia e significato, realizzando un comunismo autentico che andasse ben oltre l'ideale delle piccole e grandi riunioni di partito: come Peluchonneau, il poliziotto senza passato che sente il bisogno di reinventare le proprie origini e di consacrarsi interamente alla sua missione affidando alla sua Preda il compito di trovare uno scopo alla sua vuota esistenza, tutti vogliamo essere i protagonisti di una Storia che rimanga, tutti vogliamo essere immortali e non scomparire nell'oblio quando le luci su di noi si spengono, tutti vogliamo una vita che abbia la ricchezza di un viale alberato.

Poco importa se il nostro Poeta non è un aitante cantore ma un grottesco buffone di corte, prigioniero a suo modo anch'egli di una responsabilità troppo grande per un solo uomo: la poesia è il miracolo che ci chiede di essere formichine devote e innamorate, che traduce in coscienza il mormorio della gente dimenticata nelle case e dell'identità di una Nazione ansiosa di mostrare finalmente il suo vero volto al mondo; una Canzone tutt'altro che Disperata, per il film di Pablo Larrain.


Note
-Vedere Gael Garcia Bernal attraversare il Cile in motocicletta: il ricordo di un altro film, amatissimo dalla sottoscritta, che celebrava con passione l'America Latina in tutta la sua magia e contraddizione.


Sherlock 4x02: The Lying Detective

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"I have this terrible feeling that we might all just be human."

"Sta un po' calando rispetto al passato vero?" dice l'infermiera dell'ospedale a John Watson parlando del blog in cui il Dottore racconta da sempre i casi affrontati dal Detective e migliore amico di sempre, tirando quasi le orecchie a tutti quelli che lamentano un calo di qualità e interesse nella nuova serie di Sherlock: difficile contentare tutti nelle aspettative nutrite in tanti anni di attesa, ma l'investimento narrativo ed emotivo operato in The Lying Detectiveè tale da rendere davvero difficile la noia e l'indifferenza tanto alacremente lamentate, ponendo le basi per un finale che data la posta in giro potrebbe concludere definitivamente l' avventura contemporanea sulla BBC del nostro sociopatico preferito.

Come prevedibile dopo gli eventi di The Six Thatchers si riparte da un John Watson chiuso in sè stesso, di nuovo in terapia per cercare di superare il lutto per la morte di Mary quanto il senso di colpa per essersi abbandonato anche se senza conseguenze alla fantasia dell'infedeltà: da sempre introverso e silenziosamente perseguitato dai propri demoni (nel qual caso la moglie che diventa la voce della coscienza che non vorrebbe ascoltare), il personaggio di John resta fedele a sè stesso e alla sua psicologia, mentre a creare maggiore scompiglio è come sempre Sherlock Holmes e il suo essere incontenibile tanto nella finezza d'ingegno quanto nella sua nuova riscoperta umanità.
Il sacrificio compiuto da Mary è reale e difficile da comprendere per colui che fino a pochi anni prima giocava con la sua vita per il puro gusto di dimostrare la propria intelligenza, ma l'amicizia con Watson e i tanti eventi di dolore che l'hanno attraversata hanno ucciso da tempo il Detective che guardava con stupore e diffidenza ai legami fra gli esseri umani per restituirci un uomo che sa cosa significhi amare e che farebbe qualunque cosa per proteggere i suoi affetti; sullo sfondo stavolta c'è la battaglia contro Culverton Smith, interpretato alla perfezione da un grande Toby Jones, villain classico viscido e sopra le righe quanto basta ma anche terribilmente attuale nelle sue inquietanti similitudini con l'infame volto della televisione britannica Jimmy Savile.

Proprio nella forsennata corsa di Sherlock, deciso a riportare indietro l'amico distrutto e beffato ancora una volta dal destino sta il vero cuore dell'episodio, ispirato all'avventura del Detective morente di Arthur Conan Doyle e opportunamente ricucito con fare shakespeariano intorno alle esigenze della trama orizzontale. Citare il Bardo non è fuori luogo: c'è molto dell'Amleto di Benedict Cumberbatch nella performance dell'attore, grandioso nel rendere la follia e l'imprevedibilità del suo personaggio con sbalzi divertenti (la scena in cui recita senza controllo e armato di pistola uno dei passaggi più famosi dell'Enrico V è già un cult) e pur strazianti nella totale e assoluta devozione di Sherlock nei confronti dell'amico, tale da non conoscere esitazione neppure dinanzi alla rabbia disperata del Dottore e alla prospettiva di andare per lui quanto prima incontro alla morte.

Curiosamente, l'Amleto di Cumberbatch torna prepotente nel nostro immaginario anche grazie alla presenza nel cast di Sian Brooke, interprete in quell'occasione della fragile Ophelia e qui protagonista di un plot twist da brivido che minaccia di scuotere nel profondo le certezze dei personaggi così come quelle del pubblico: ancora una volta abbiamo guardato ma non osservato, ci siamo fatti prendere dal gioco ma ci siamo lasciati sfuggire il dettaglio più importante e abbiamo voluto essere imbrogliati dal prestigio; come Sherlock abbiamo inciampato nella nostra stessa umanità e saremo felici di rimediare, per risolvere il problema finale che ci attende minaccioso al prossimo episodio.



Leggi su cinefilos/serietvSherlock 4×02: recensione dell’episodio “Il detective morente

Sherlock 4x03: The Final Problem

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"Non è uno dei vostri casi idioti!" urla Mycroft Holmes ai protagonisti e così al pubblico, tirato ancora una volta all'interno della narrazione e ammonito ripetutamente per le sue critiche alla scelta dello show di non preservare una struttura più canonica e lanciarsi in continue sperimentazioni: Steven Moffat e Mark Gatiss non si sono però mai lasciati intimorire e hanno continuato per la loro strada, spingendo al massimo il pedale sullo sviluppo dei personaggi e rendendo questa quarta stagione di Sherlock uno studio profondo non solo sulla nuova umanità del Detective, già raggiunta nella terza serie e qui esplorata al massimo delle sue possibilità, ma anche degli altri protagonisti. Trovare spunti esplosivi per innescare gli step psicologici necessari rinunciando con coscienza allo scheletro di supporto di una trama equilibrata comporta però dei rischi e mai come in The Final Problem: la scatenata corsa al colpo di scena si avvita su sé stessa e procede spedita abbandonando lo spettatore a metà strada, rinuncia a prenderlo per mano e a renderlo partecipe degli eventi seminando tracce e indizi che possano permettergli di guardare attraverso il prestigio e di comprendere i propri errori, fornisce informazioni che arrivano da molto, troppo lontano e ci chiede di assimilarle per apprezzarne l'intelligenza e l'arguzia negandoci le chiavi per aprire la fortezza.

Euros Holmes( interpretata con la giusta allucinazione da Sian Broke), psicopatica e intelligente ben oltre i fratelli, ben oltre Moriarty e ben oltre l'umana comprensione (la finezza di ragionamento dei due Holmes più famosi è sempre stata empiricamente comprensibile, per quanto eccezionale) sfoga il suo gioco di potere su Sherlock, Mycroft e John con l'eleganza di un Hannibal Lecter al comando di versione più soft di Saw L'Enigmista, una scatola di tortura lunga oltre 60 minuti che stressa allo stremo e non risparmia sofferenza gratuita nemmeno alla povera Molly Hooper, psicologicamente vessata (e tristemente trascurata dagli autori, a dispetto di una terza serie che davvero aveva saputo darle luce e sostanza) in quei sentimenti mai sopiti che hanno riempito il suo personaggio di delicatezza ma anche di carattere e determinazione. Nel mentre, le rivelazioni si snodano e la soluzione arriva virando al canone con riferimenti numerosi (il Cerimoniale dei Musgrave, il Mistero della Gloria Scott in cui compare la figura di Victor Trevor) ma non nutriti adeguatamente da un'opportuna contestualizzazione che ci consenta di goderci fino in fondo il divertimento e apprezzare il colpo di scena come si vorrebbe, lasciandoci abbagliati dal flash della rivelazione senza che ne consegua una messa a fuoco sincera. 

Apprezzabili oltre misura restano invece i personaggi, giunti a un livello di maturazione e presa di coscienza encomiabile: se conoscevamo già il cuore di Sherlock e sapevamo da tempo che John è ormai per lui ben più che un fratello, vedere Mycroft Holmes rivelare il suo e uscire allo scoperto come l'uomo nobile e coraggioso che avevamo sempre immaginato è stato straordinario. L'ultimo messaggio di Mary, ennesima registrazione opportunamente funzionale ma comunque gradita è il monito definitivo che consacra i protagonisti alla Leggenda e affida la serie alla clemenza e all'affetto degli spettatori.
 The Final Problem non è un episodio perfetto, trabocca della tracotanza degli sceneggiatori e di una vanità barocca che Sherlock ha sempre posseduto ma che viene qui portata allo stremo oltre i confini del canone e in nome dell'amore per i caratteri del detective, finalmente un brav’uomo e non solo una mente brillante, e del dottore che non era mai tornato dalla guerra e che ha trovato nell’amico la ragione di vita che aveva perduto; eppure, qualunque cosa accada e per quanto gli adattamenti decidano di spingersi oltre e tentare nuove strade attraverso il cinema, la televisione, il teatro o persino romanzi e componimenti apocrifi, l'unica cosa che conta è il Mito e il fatto che questo non morirà mai, perchè Sherlock Holmes e John Watson saranno sempre i nostri Baker Street Boys e potremo sempre ritrovarli, seduti nelle loro poltrone e intenti a riflettere su un caso irrisolvibile, per alleviare il tarlo rodente di una quotidianità priva di brividi e avventure: l'Avventura con la A maiuscola che Sherlock ha saputo rendere reale, quella per la quale saremmo per sempre grati.


Leggi su cinefilos/serietv: Sherlock 4×03 recensione “Il problema finale”

Vikings 4x17: The Great Army

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Venti gelidi che soffiano attraverso il tempo e lo spazio, portando con sè tristi notizie e propositi di vendetta che non potranno mai sopirsi finchè il sangue non sarà finalmente versato: Vikings prosegue il suo percorso a dispetto della grave perdita del suo protagonista (il cui spirito non è ancora sopito e forse non lo farà mai), affilando i coltelli e le asce in previsione di un grande scontro che dovrebbe chiudere per sempre i conti con la vecchia guardia britannica rappresentata da Re Aelle e soprattutto da Re Ecbert.


Mentre il secondo è ben consapevole della minaccia rappresentata dai figli di Ragnar, forte della sicurezza datagli dall'essere riuscito a uccidere il temibile Re Vichingo che ha riempito della sua grandezza poemi e canti leggendari Aelle non sembra considerare il grido dei piccoli cinghiali una vera minaccia: a nulla servono gli ammonimenti di Judith, che sostenuta dalla cultura e dall'indipendenza conquistate grazie a Ecbert non ha alcun timore di affrontare il padre; dopo che i giochi saranno chiusi, la donna potrebbe diventare una figura apicale nella formazione del giovane Alfred, futuro Alfredo il grande e temibile avversario dei vichinghi.

La nuova era inaugurata da Lagertha non gode certo di unità e prosperità: i figli di Aslaug desiderano la vendetta per la morte della madre più di ogni altra cosa e gli inviti alla collaborazione della Shieldmaiden sembrano destinati a rimanere parole al vento, finchè Bjorn e la sua squadra di guerrieri non fanno ritorno dal viaggio del Mediterraneo: una traversata con nostro grande disappunto lunga ma non troppo, che ci ha permesso di sbirciare con interesse nuovi popoli e che saremmo interessati a veder proseguire. Nell'attesa, il figlio maggiore di Ragnar Lothbrok e il fratellastro Hvitserk arrivano giusto in tempo per fermare la faida interna a Kattegat scatenata da Ivar e concentrare le forze di tutti i contendenti sull'unico e urgente obiettivo di vendicare il padre; consapevole di dover appagare le nostre aspettative con una battaglia senza precedenti, Vikings inganna l'attesa presentandoci i nuovi equilibri familiari dei Lothbrok e preservando con cura la curiosità su ciò che i personaggi saranno in grado di fare: ereditare le redini dello show dopo l'uscita di scena di Travis Fimmelè una bella responsabilità, ma i nostri sembrano avere tutte le carte in regola per riuscire nell'impresa.  

Leggi su cinefilos/serietv: vikings 4x17 recensione dell'episodio con Alexander Ludwig



Vikings 4x18: Revenge

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Vendetta, vendetta, vendetta: in nome di Ragnar Lothbrok, in nome di un popolo umiliato e deciso a dimostrare la propria superiorità in tutta la sua furia, in nome di un riscatto personale che potrebbe decidere definitivamente l'affermarsi di un nuovo Leader, Vikings scatena il suo esercito più grande contro i Sassoni in un episodio che rinuncia del tutto all'opportunità di bissare la spettacolarità degli eventi di Parigi, ma che lavora con cura sulla tensione preparatoria di entrambi i fronti e sulla grande incertezza per le conseguenze che ne deriveranno. 

Consapevole del fatto che mandare la più grande armata che si sia mai vista richiederà il massimo favore da parte degli Dei, Lagertha sceglie di sacrificare un importante jarl per la causa: compiuto col favore dell'interessato, il rituale è un'altra di quelle preziose occasioni che Vikings ci concede di ammirare da vicino splendide e inquietanti istantanee nella vita del popolo norreno, civiltà di uomini intraprendenti e donne guerriere emancipate ma anche profondamente legata al sangue e all'importanza della ferocia della morte. 

Nel mezzo della preparazione per la battaglia, la rivalità fra i figli di Ragnar si appiana temporaneamente, ma nonostante la scelta condivisa di affidare a un guerriero più esperto come Bjorn il comando della missione Ivar sembra determinato a rivendicare la propria preminenza nel gruppo quanto prima: nulla sembra poter invece dividere Ubbe e Hvitserk, pronti a condividere senza difficoltà persino la disponibilità della bella Margrethe.

In Britannia, re Ecbert si ritrova a dover affrontare una vecchiaia piena di dubbi, rimpianti e tormenti, mentre sicuro della propria forza e della propria fede Re Aelle arriva come prevedibile del tutto impreparato al momento della fine: per ragioni forse di budget ma anche di storytelling (concentrarsi sull'esposizione dello scontro avrebbe depotenziato la violenza  dell'atto finale) nulla ci viene mostrato, ma quanto segue ripaga ampiamente tutta l'attesa e la frustrazione dei personaggi e degli spettatori stessi: un popolo di navigatori e conquistatori suggestivo e affascinante, ma capace di azioni efferate e rabbiose che non fanno diminuire in noi interesse e curiosità, ma che nel troppo amore non dobbiamo mai dimenticare. 

10 Film per il 2017


Vikings 4x19: On The Eve

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La grande vendetta è compiuta, ma non è ancora il momento di tornare a casa: Vikings si prepara al gran finale di questa travagliata e complessa quarta stagione decisa a dimostrare che nonostante la scomparsa di Ragnar le forze in campo siano comunque sufficienti a reggere la baracca in grande stile.


In patria, Lagertha si ritrova ad affrontare una grave minaccia al trono recentemente conquistato: con forze adeguate e una Kattegat ben fortificata il pericolo viene rapidamente scongiurato, ma è fin troppo chiaro che la stabilità apparentemente raggiunta dalla Guerriera è solo una blanda illusione e come Ragnar, anche lei dovrà difendere il trono dall'ambizione e dall'avidità di altri pretendenti; il destino del personaggio di Katheryn Winnick si deciderà in questa stagione? Tutte le premesse di questo secondo ciclo di episodi sembrano suggerirlo, ma le modalità potrebbero essere più sorprendenti di quel che pensiamo. 

In Inghilterra, Aetherlwulf si prepara a combattere la grande armata pagana al massimo delle sue possibilità: il disappunto per non aver potuto assistere allo scontro vero e proprio la scorsa settimana è stato notevole, ma forse concentrare ogni sforzo su quella che a tutti gli effetti risulta essere una battaglia dall'esito maggiormente imprevedibile (che i vichinghi conquistino il campo non è in discussione, ma non sappiamo quale destino Michael Hirst abbia in serbo per i reali del Wessex) è stata una scelta saggia: non sostenuto adeguatamente dal padre e abbandonato dalla moglie, Aethelwulf non ha avuto particolare clemenza nel suo percorso narrativo, ma vedere il momento del confronto con Ecbert e col giovane Alfred ha dato al personaggio una luce e una dignità del tutto nuovi.

In attesa che lo scontro si consumi, i vichinghi cercano di venire a patti con i propri demoni non sempre riuscendo nell'intento: Harald Bellachioma si dimostra un uomo meno furbo e intelligente di quanto era sembrato, mentre mitigato dall'età e dal dolore di tante battaglie e patimenti Floki si ritrova a dover fare i conti con un'angosciante rivelazione riguardo al profondo disagio di Tanaruz, la ragazzina musulmana che Helga ha voluto a tutti i costi adottare per colmare il vuoto della perdita della figlia. Difficile mantenere invece l'equilibrio fra i figli di Ragnar, data in particolare l'incontrollabile desiderio di affermazione di Ivar e la resistenza di Bjorn in quanto figlio maggiore e più esperto condottiero: alla fine sarà il primo a trovare la soluzione ideale per trionfare, dimostrandosi degno erede di suo padre per tattica e arguzia e accompagnandoci verso un ultimo episodio che potrebbe ancora riservarci molte sorprese.

Leggi su cinefilos/serietv: Vikings 4×19 recensione dell’episodio con Katheryn Winnick

Vikings 4x20: The Reckoning

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Tempo di bilanci, riflessioni e cambiamenti nella quarta stagione di Vikings, giunta al suo ultimo episodio con l'enorme responsabilità di traghettare l'eredità di Ragnar Lothbrok verso lidi ancora inesplorati e sconosciuti, che i figli del nostro condottiero dovranno essere in grado di sostenere nel modo migliore possibile.

Il momento del passaggio di consegne definitivo non è segnato dagli avvenimenti di Kattegat, in quest'episodio lontana e ancora nelle salde mani di Lagertha: con la rapida incoronazione di Aethelfulf, fuggito lontano insieme alla famiglia e alla popolazione per lasciare Ecbert solo ad affrontare il suo destino viene reciso l'ultimo vero legame con la memoria di Ragnar, l'amico nemico che con lui aveva condiviso progetti di gloria, ingegno e ambizione e che adesso sceglie di togliersi la vita proprio in quella vasca dove aveva discusso tanto a lungo col Re Vichingo con rispetto e curiosità. Pur nella disperata rassegnazione, l'ultimo scacco è però tutto a favore del figlio e del destino del suo popolo: un trattato in cui si assicura falsamente la disponibilità di terra in Inghilterra, ideale per mettere i vichinghi l'uno contro l'altro e costringerli a misurarsi con l'ingrata scelta fra la cara vecchia furia dell'attacco fine a sè stesso e l'investimento di una saggia conquista. 

A scaldare gli animi è come prevedibile Ivar il Senz'Ossa, abile nella strategia militare come il padre ma non dotato della stessa diplomatica pazienza: alimentata da anni di vessazioni, la furia del ragazzo è incontrollabile e a farne le spese saranno per primi i suoi fratelli, incapaci di prevederne le mosse e di comprendere fino in fondo il suo dolore e quanto questo possa essere utile e insieme minaccioso per i loro piani futuri. 

Altro personaggio destinato a patire tormenti è Floki, privato dell'ultimo legame con la sua umanità e adesso del tutto svuotato e allo sbando: abbiamo visto il costruttore di barche accecato dalla devozione agli Dei, comprendere il valore dell'amicizia e del perdono e iniziare a guardare agli altri popoli con maggiore rispetto e tolleranza, solo per vedersi portare via l'ultima cosa che per lui fosse davvero importante; adesso rimane solo una barca vuota, nell'attesa che gli Dei gli restituiscano uno scopo e gli mostrino la via.

Si conclude così, con la promessa di altro sangue e di nuove tensioni portate dall'affascinante ma ancora ignoto personaggio del monaco guerriero di Jonathan Rhys Meyers, una stagione difficile la cui traduzione in due tronconi dal doppio degli episodi ha inesorabilmente sbilanciato la misura che aveva caratterizzato le stagioni precedenti, ma allo stesso tempo contribuito a favorire i tempi di una transizione resa maggiormente indolore da un raggio d'azione più ampio: se la nostra pazienza pagherà le aspettative lo sapremo solo nella prossima stagione, quando l'ombra del nostro amato Ragnar sarà abbastanza lontana da permettere a tutti i sopravvissuti di uscire allo scoperto ed essere sè stessi.

Leggi su cinefilos/serietv: Vikings 4×20 recensione dell’episodio con Jonathan Rhys Meyers

La La Land

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"...And here’s to the fools
who dream
Crazy, as they may seem
Here’s to the hearts that break
Here’s to the mess we make."

La cosa più grande che tu possa imparare è amare e lasciarti amare, ma non al prezzo di un sogno troppo grande per rischiare di rimanere chiuso nel cassetto: i versi di Nature Boy che erano divenuti il motto del Moulin Rouge di Baz Lurhmann avrebbero potuto trovare terreno fertile anche in La La Land di Damien Chazelle, seconda prova di pregio del trentaduenne regista dopo Whiplash e film musicale nel genere quanto nell'ambientazione, se solo non fosse stato lontano anni luce dalla riproduzione di un archetipo che ponesse le basi per una romantica e appassionata fantasia d'amore come era invece accaduto nel film di Lurhmann; torna prepotente piuttosto il tema della prioritaria realizzazione delle proprie ambizioni, parecchio caro a Chazelle per ragioni che non escludiamo essere prettamente autobiografiche, rivestito di un approccio di cuore più soft che lascia indietro gli schizzi di sudore e sangue rimasti sulla batteria di Miles Teller ma non per questo rinuncia a spezzarci il cuore e a farci soffrire.

La love story fra Mia, attrice in erba che lavora nella caffetteria degli Studios inseguendo un provino dietro l'altro e Sebastian, pianista Jazz con un'anima antica in un mondo troppo accelerato per riuscire ad apprezzare ancora il sound di Charlie Parker e Miles Davis, è il classico incontro/scontro fra due anime sognanti capaci di riconoscere l'incanto che le contraddistingue e che lega il loro ritmo all'unisono, a dispetto di un destino che insiste per allontanarli portandoli continuamente fuori tempo: è l'amore che ti fa saltellare per la strada in punta di piedi e che ti lascia a volteggiare senza peso, lift us up where we belong, nel cielo blu di cartapesta di quella Città delle Stelle dove ogni giorno può essere un Giorno di Sole, finché non arriva la realtà, quella vera, pronta come sempre a complicare la semplicità delle cose e a costringerti a chiederti cosa sia davvero importante, riportandoti coi piedi per terra e lasciando del blu intenso che ti avvolgeva solo un timido e malinconico bagliore; siamo tutti sognatori spezzati dalla vita e dal peso delle nostre scelte, dai frame dei film che non abbiamo vissuto e che ci passano davanti con la consapevolezza di ciò che poteva essere e non è stato perché lui, perché lei, perché loro, andiamo avanti con un sorriso amaro sul volto grati per quello che abbiamo avuto e per la luce azzurra di un ricordo che ci scalda nella solitudine.

È la dura legge del jazz, le note della nostalgia che musicano un'esistenza fatta di cose belle perché anche un po' tristi, un lietmotiv recentemente ascoltato nel Cafè Society di Woody Allen ma orchestrato con più freschezza e meno polvere dal team di Chazelle, deciso a omaggiare la tradizione del musical hollywoodiano passando dai colori e dalle geometrie degli anni '50 e '60 alle scatenate coreografie degli '80 (la spettacolare sequenza di Another Day of Sun grida Famead ogni singolo passo), creando un clash spietato fra le luci dorate della fiaba e il grigio di un presente che con ogni bolletta non pagata e ogni biglietto non staccato annebbia lentamente amore e passione.

Un omaggio al cinema e alla sua capacità di distrarci dal dolore e restituirci la meraviglia del possibile, curato nei dettagli anche grazie a citazioni collaterali a cui è impossibile non voler bene all'istante: ci sono Casablanca e Vacanze Romane, ma soprattutto la zia parigina di Mia Dolan, folle come la Catherine del Jules e Jim di Francois Truffaut nel suo lanciarsi nella Senna solo per avvertirne l'ebbrezza.


In una narrazione che procede per quadri assecondando le stagioni, la mano sicura di Damien Chazelle ci concede lunghi campi di colore e spettacolo, mettendo alla prova la coppia d'oro Emma Stone/Ryan Gosling con canzoni e passi di danza di cui non sembrano avere assoluta padronanza, ma che rende ancora più tangibile la loro normalità nella fossa dei leoni Losangelina:  il canto ruvido di lui e la sua dolcezza sulla tastiera fanno bene la loro parte, ma è la leggerezza della Stone a conquistare la scena, insieme a quell'assolo appassionato di Audition che vorrebbeessere quasi una risposta positiva all'I dreamed a Dream di Anne Hathaway in Les Miserables; sullo sfondo, vigile e sempre presente, la bella Los Angeles che fiorisce e distrugge speranze, la Città delle Stelle assediata dal traffico e dalla presunzione degli attori di Hollywood ma altrettanto capace di regalare tramonti mozzafiato e panorami da favola.

La battaglia che sul web ha visto fan e detrattori insultarsi a vicenda per avere l'ultima parola su La La Land ha consumato le energie di molti, ma alla fine dei giochi resta solo il film e ciò che sia stato in grado di lasciarci: brindiamo dunque ai sognatori, ai pasticci che combinano, agli errori che commettono e con i quali dovranno convivere tutta la vita, in un nome di un obiettivo scintillante che richiede tenacia e sacrificio, con un romanticismo che forse non pagherà tutti i conti alla fine del mese ma fa comunque bene alla salute.


Note
1)Oscarometro:
Delle ben 14 nomination ricevute, La La Land ha conquistato ben sei statuette, tutte meritate: Emma Stone andava premiata soltanto per la sequenza di Audition, anche se potendo scegliere avrei dato la statuetta alla Natalie Portman di Jackie, o se fosse stata in gara alla Amy Adams (!) di Arrival, mio film preferito in assoluto della rosa dei candidati ma con possibilità di vincere sotto zero.
La malafigura poraccia dell'errore per il miglior film è ormai storia: no, come detto La La Land per me non era comunque il miglior film e Moonlight non l'ho ancora visto, ma la scena è stata talmente crudele e la brutta figura così poraccia da avermi fatto passare la voglia vita natural durante, SHAME SHAME SHAME.


2) Il momento migliore della serata degli Oscar è stata l'esibizione di John Legend con City Of Stars e Audition, vedere per credere:




Arrival

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"Despite knowing the journey and where it leads... I embrace it. And I welcome every moment of it."


Una finestra di pace che guarda sul mare, incorniciata su un tramonto azzurro con l'acqua che tutto lava e tutto ritorna, una bambina che nasce e che cresce imparando ad amare il mondo e la vita che ha ricevuto, sotto gli occhi felici della mamma che non l'avrebbe mai lasciata: più che ai classici della fantascienza, le prime immagini di Arrival di Denis Villeneuve sembrano guardare a La Sottile Linea RossaThe Tree of Life di Terrence Malick, decodificandone la struggente bellezza visiva in un film che ne raccoglie il messaggio con straordinaria sincerità e candore, ma senza inciampare nella trappola di autocompiacimento di cui soffrono meccanismi autoriali ormai consolidati.

Di codificazione di linguaggi e schemi universali si parla d'altronde nel lavoro di Villeneuve, tratto da uno dei racconti della serie Storie della tua vita di Ted Chiang e deciso a trattare l'invasione aliena della Terra come il più classico scontro di lingue e culture, dal quale è possibile uscire vincenti solo abbracciando la bandiera della comunicazione e cooperazione fra i popoli del Pianeta. 

Niente cieco desiderio di morte e distruzione, mastodontiche astronavi con esplosioni atomiche di metropoli statunitensi o eroismi spicci d'occasione: qui si viene per parlare e capirsi, imparare a leggere un modo di esprimersi e di pensare completamente diverso dal nostro che coi suoi sprazzi d'inchiostro sembra comunque fatto apposta per toccare le corde dell'umile intelligenza umana, indagare sul perché mai creature provenienti da tanto lontano si siano scomodate a fare la strada.

La lingua come strumento per plasmare ciò che siamo o che potremmo diventare, ma anche il cinema e la sua capacità di riscrivere il nostro modo di vedere giocando con la nostra percezione del tempo e dello spazio e costruendo la tensione su un ribaltamento ben orchestrato, maschera di un messaggio semplice ma mai urlato, retorico o ansioso di stupire: attraverso il verde e l'azzurro dei grandi spazi aperti che filtrano dalla pulitissima camera del regista si torna all'uomo e alla sua capacità di amare, l'unicum che qualunque creatura aliena potrebbe invidiarci e che condiziona tutte le sue scelte, ben oltre la razionalità e il controllo che questa ci impone.

È nella solitudine malinconica e consapevole di Amy Adams, perno emotivo del film senza il cui sguardo limpido di meraviglia e commozione Arrival non avrebbe mai avuto la stessa forza stellare che mostra sino alla straziante sequenza finale, che si raccoglie il sacrificio che l'umanità intera compie ogni giorno: un'altra rossa dagli occhi di cielo, come la Jessica Chastain di The Tree of Life, per ricordarci che senza amore la nostra vita passerà in un lampo. 


Note: 
Jeremy Renner: Il ruolo di Jeremy Renner nel film è privo di sfumature particolari e funzionale unicamente alla quest personale del personaggio di Amy Adams. Dispiace un po', ma la resa generale non ne risente affatto, scusa Jeremy.
Oscarometro: Arrival è al momento il mio film degli Oscar 2017, ma le sue probabilità di vittoria erano praticamente sotto lo zero. Plus, NON MI AVETE NOMINATO AMY ADAMS E QUINDI SIETE ESSERI INDEGNI. 

Frantz

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"Les sanglots longs
Des violons
De l'automne
Blessent mon coeur
D'une langueur
Monotone.
Tout suffocant
Et blême, quand
Sonne l'heure,
Je me souviens
Des jours anciens
Et je pleure

Et je m'en vais
Au vent mauvais
Qui m'emporte
Deçà, delà,
Pareil à la
Feuille morte."
(Chanson d'automne, Paul Verlaine)

Una ragazza porta tutti i giorni i fiori sulla tomba del fidanzato: il corpo del suo amato non appartiene a quella terra, sepolto senza nome in qualche campo francese ancora insanguinato da una Guerra che si è portata via tutta la giovinezza delle Nazioni che l'hanno scatenata lasciandosi dietro solo fantasmi; il mondo che li circonda è in bianco e nero, gli unici colori concessi dal lutto e dal dolore di chi finge di poter ricominciare ma ha perso per strada troppi pezzi: la cartolina che presenta Frantz di François Ozonè di quelle che potresti trovare nei romanzi di Stefan Zweig, con la Mitteleuropa reduce dal Primo Conflitto Mondiale incapace di riappacificarsi con lo straniero quanto con sé stessa e la sua arroganza, la stessa che avrebbe riportato il mondo sull'orlo del baratro vent'anni dopo aver lavato via dagli scarponi le croste di fango delle trincee.

Di quello studente con la passione del violino che ha pagato con la vita l'insistente patriottismo dell'autorità paterna ed è partito senza mai più tornare non rimane che il nome, il gelo dell'assenza che tiene il suo piccolo paese prigioniero di ricordi che iniziano a sbiadire lentamente nella sacralità confusa e intoccabile del mito: a infrangere l'incantesimo arriva Adrien, un amico francese di Frantz dei tempi di Parigi che prova a dare un po' di sollievo alla famiglia del ragazzo e alla fidanzata Anna, la ragazza che doveva sposarsi in autunno e che adesso vive come una figlia adottiva nella casa dei genitori del suo promesso; il viaggio di rinascita che ne consegue passa attraverso un'oculata rete di bugie, dolci ma necessarie e ben più catartiche della verità, che il poliedrico regista francese costruisce con la grazia di chi conosce bene il genere e sa come gestirlo senza strafare, favorito dalla scelta di mantenere a portata d'orecchio le differenze linguistiche fra Francesi e Tedeschi aumentando il senso di alienazione dei personaggi quanto quello dello spettatore.

Mai timoroso di sperimentare, Ozon si tiene ben alla larga dall'esasperato (nei toni quanto nei colori)Angel, pregevolissimo ma saturo melodramma confezionato anni fa, per raccontare una storia di flebili bagliori che pur privata consapevolmente del colore ben oltre la scelta stilistica(in perfetto stile Pleasantville, l'abbandono del grigio viene concesso solo a pochi minuti di ricordi per non ripetersi mai più) ci scalda il cuore e ci fa scalpitare e disperare sulla poltrona come si conviene a un bel romanzo del Periodo, mai urlato, delicato, nutrito da sguardi nascosti e parole non dette: basta l'emaciata tristezza di Pierre Niney, la stessa che potresti trovare nella vecchia foto di un parente sbiadita e dimenticata in soffitta e che ti guarda restituendo al mittente una lunga serie di domande senza risposta, ma soprattutto la grazia dell'emergente Paula Beer, bella e luminosa come una Madonna rinascimentale coi suoi occhi pieni di malinconia e speranza, anche con tutto il bianco e nero.


Scarlett Johansson: fra talento e sensualità, il mistero della Vedova Nera

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Occhi grandi e verdi che non si abbassano mai, orgogliosi di un incantesimo duraturo e pericoloso al quale non puoi e non vuoi sfuggire, le labbra carnose e sensuali leggermente dischiuse pronte a bisbigliarti un segreto che aspetta da troppo tempo, la dolcezza di un sorriso accennato che dovrebbe scontrarsi col resto e che invece è chiaramente nel suo elemento: la ragazza con l'orecchino di perla di Johannes Vermeer non poteva trovare alter ego migliore in Scarlett Johansson, l'attrice americana che ha saputo trovare la sua strada nella grande marea di Hollywood diventando uno dei volti più popolari e richiesti degli ultimi anni.


Nata il 22 novembre 1984 con un nome che tradisce origini scandinave, Scarlett Johansson nasce a New York da un architetto di Copenaghen, Karster Johansson, e dalla produttrice ebrea del Bronx Melanie Sloan. I genitori si separano quando è ancora piccola, ma il difficile momento familiare non la distoglie mai dalla sua più grande ambizione: sin dall'età di quattro anni Scarlett dimostra velleità artistiche e desidera diventare un'attrice, incoraggiata dalla madre che inizia subito a portarla ai provini per fare spot pubblicitari, puntando però ad una carriera nel cinema e nel teatro(solo recentemente è sbucato in rete il video del provino della bambina per il ruolo di Judith nel film Jumanji, poi andato a Kirsten Dunst): a soli 8 anni, Scarlett viene scelta per recitare sul palcoscenico nella piece Sofistry, insieme a Ethan Hawke.

Le piccole parti al cinema iniziano a susseguirsi con Genitori Cercasi, diretto da Rob Reiner e con Elijah Wood e Bruce Willis, La Giusta Causa, dove interpreta la figlia di Sean Connery, e Mamma ho preso il morbillo, sequel apocrifo della serie diretta da Chris Columbus.
La prima vera consacrazione arriva nel 1998, grazie a L'uomo che sussurrava ai cavalli di Robert Redford: a 14 anni, Scarlett interpreta l'adolescente Grace, abile cavallerizza rimasta vittima di un terribile incidente che l'ha lasciata senza una gamba, distrutta nella carne quanto nello spirito.

Nel 2001 seguiranno L'uomo che non c'era, dove lavora per la prima volta coi fratelli Coen, e Ghost World, tratto dal fumetto di Daniel Clowes, dove veste i panni dell'adolescente annoiata Rebecca al fianco dell'allora assai più nota Thora Birch: il film non fa faville al botteghino, ma viene riscoperto come un cult alcuni anni dopo e viene considerato dai più il ruolo che diede una scossa definitiva alla carriera attoriale della Johansson. 
Il 2003 è un anno fondamentale: al fianco di un attore del calibro di Bill Murray Scarlett interpreta Charlotte, ventenne neolaureata smarritasi nel caos di Tokyo e di un matrimonio sbagliato, nel celeberrimo Lost in Traslation di Sofia Coppola, primo vero ruolo "adulto" della sua carriera: il film è un successo di critica e pubblico e frutta all'attrice un Premio BAFTA e una nomination ai Golden Globe. Nello stesso periodo esce in sala La Ragazza con l'orecchino di perla, tratto dal bestseller di Tracy Chevalier, dove interpreta Griet, serva nella casa del pittore (interpretato da un solenne Colin Firth) capace di guardare oltre le apparenze e di far battere in silenzio il cuore del suo Padrone. Dotata di una somiglianza straordinaria con la giovane ritratta nell'omonimo dipinto, Scarlett è una pennellata di grazia nei meravigliosi quadri riprodotti dal film di Peter Webber: la sua performance è considerata l'anima del film e le fa ottenere nuove nomination ai BAFTA e ai Golden Globes.

L'anno successivo torna al film in costume con Le Seduttrici (A Good Woman), tratto da Il Ventaglio di Lady Windermere di Oscar Wilde: il film riceve diverse recensioni negative ed è un flop al botteghino, ma la Johansson resta una splendida Meg Windermere, dolce e luminosa nell'adattamento che sposta con raffinatezza il tempo dell'azione nell'Amalfi degli anni 30'; migliori risultati ottengono invece il thriller The Perfect Score,l'indie Una Canzone per Bobby Long (film con John Travolta fortemente voluto dall'attrice)e In Good Company, gradevolE commedia di Paul Weitz con Topher Grace e Dennis Quaid.

Eccezion fatta per il disastro di The Island, Sci-fi diretto da Michael Bay dove uno spunto interessante e attuale finisce soffocato dalla caotica trama action marchio di fabbrica del regista, il 2005 è un anno eccellente grazie a Match Point di Woody Allen, thriller sofisticato dove Scarlett interpreta la conturbante Nola Rice, attrice dilettante che fa perdere la testa al parvenu Jonathan Rhys Meyers; seguiranno il più leggero e alleniano Scoop, con Hugh Jackman, e The Prestige di Christopher Nolan, considerato ad oggi il manifesto del regista e il suo lavoro migliore, dove ritrova l'attore australiano e interpreta la sensuale assistente e amante dell'Alfred Borden di Christian Bale. Nello stesso anno interpreta un'altra donna affascinante e misteriosa e nel noir Black Dahlia di Brian De Palma dove lavora con Josh Hartnett, con cui ha anche una relazione.  

Nel 2007 Scarlett si concede un po' di leggerezza con Il Diario di Una Tata, dove interpreta la neolaureata in economia e appassionata in antropologia Annie Braddock, finita a fare la tata per un bambino dell'Upper East Side nell'attesa di scoprire cosa fare della sua vita: sul set trova Chris Evans, col quale avrebbe lavorato in seguito nei film del Marvel Cinematic Universe.
Nel 2008 è la volta di L'altra donna del re, film in costume tratto dal romanzo di Philippa Gregory, dove ha il ruolo della mite Maria Bolena, sorella della famigerata Anna (Natalie Portman) e con lei in competizione per conquistare il letto e il favore di Enrico VIII; seguono Vicky Cristina Barcelona di Woody Allen, dove interpreta l'intraprendente Vicky, The Spirit di Frank Miller, nei panni della Femme Fatale Silken Floss e la commedia corale La verità è che non gli piaci abbastanza

L'anno seguente, Scarlett approda al ruolo che le ha regalato maggiore notorietà, amato dagli adulti quanto dai giovanissimi: per la prima volta in Ironman 2 appare nel ruolo di Natasha Romanoff/Vedova Nera, che riprenderà nuovamente e con grande successo ne Gli Avengers(2012), Capitan America: il soldato d'inverno(2014), Avengers: Age of Ultron (2015), Capitan America: Civil War (2016) e l'atteso Infinity War (2018): l'ingresso del MCU non le impedisce di partecipare a progetti dal tono completamente diverso come La mia vita è uno Zoo di Cameron Crowe e Hitchcock di Sasha Gervasi, dove interpreta con ottima verosimiglianza l'attrice Janet Leigh nel periodo delle riprese di Psycho; nello stesso anno segue anche Don Jon, debutto dietro la macchina da presa di Joseph Gordon Levitt, dove interpreta la sexy e volgare fidanzata del protagonista, ossessionata dalle fintissime commedie romantiche come il protagonista dalla pornografia.

Nel 2013 la sua immagine di Sex Symbol viene consacrata definitivamente con un ruolo inusuale: in Her di Spike Jonze la Johansson è Samantha, voce del sistema operativo che accompagna le giornate di Theodore, lasciato col cuore spezzato e un'esistenza solitaria dall'abbandono della moglie: la voce melliflua dell'attrice (che fra l'altro non ha mai disdegnato la sua passione e interesse per un'eventuale carriera musicale) è perfetta per accendere le fantasie e i sentimenti di Theodore quanto quelli dello spettatore e sono stati in molti a lamentare la mancanza di una nomination di pregio per la parte, negata proprio in quanto etichettata come semplice lavoro di doppiaggio; nello stesso anno esce Under the Skin, dove si misura per la prima volta con scene di nudo integrale. Nel 2014, oltre al ritorno di Capitan America, la troviamo nella commedia Chef con Jon Favreau e nel nuovo lavoro di Luc Besson, Lucy

Nel 2016 mette nuovamente a servizio a la sua voce interpretando il serpente Kaa ne Il Libro della Giungla di Jon Favreau e in Sing, film d'animazione che vede impegnati anche Matthew McConaughey e Reese Witherspoon; nello stesso anno torna a lavorare coi fratelli Coen nel divertente Ave Cesare!, dove interpreta la diva degli spettacoli acquatici DeeAnna Moran.

Quali nuove sfide attendono adesso l'attrice di New York? Ghost in The Shell, suo ultimo lavoro tratto dall'omonimo manga e in uscita in questi giorni ha destato non poche critiche e accuse di Whitewashing, ma l'attesa per la sua performance resta alta: difficile trovare un'occasione in cui, qualunque fosse la natura del progetto e l'opinione di Pubblico e Critica, Scarlett non ci abbia colpiti con la sua presenza e interpretazione, prigionieri del magnetismo di quegli occhi verdi e nell'enigma ammaliante di quel volto con ancora tante storie da raccontare, sulla tela sempre in movimento che chiamiamo cinema.

Beauty and The Beast

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Oltre i confini del sequel e del prequel, del remake e del revival, un'altra inquietante creatura figlia del nostro tempo ha trovato terreno fertile e battuto cassa come non mai fra le braccia di Mamma Disney: l'adattamento live action dei classici dell'animazione del passato, la resurrezione delle opere che tutti conosciamo pressoché a memoria dopo anni di rewatch in cassetta e in dvd, con qualche piccolo splash di revisione e ampliamento narrativo e un'imponente apparato di scenografie e costumi che non badi a spese, per vedere realizzata la fantasia di avere attori in carne e ossa che abbiano le caratteristiche giuste per dare vita ai personaggi che hanno popolato la nostra infanzia.

Non che nella nostalgia ci sia qualcosa di sbagliato: il mito dell'età dell'oro è la ricerca di un rifugio dall'oppressione quotidiana che ci piace sempre tanto e che da qualche anno a questa parte è stato pompato come non mai(come se ormai si fosse raggiunto un limite alle cose che possano essere create, scoperte, esplorate), ma quando la riscoperta si traduce in un copycat senz'anima del tutto dipendente dal ricordo di ciò che è stato e in grado di contribuire poco o niente a un arricchimento della storia, qual dovrebbe essere l'utilità ha l'intera operazione?

Conti alla mano, accanirsi è però un po' come sparare sulla Croce Rossa: la Major conosce bene il suo pubblico e sa che non direbbe mai di no alla rispolvero di prodotti familiari e rassicuranti, per non parlare delle nuove generazioni di pulcini che non hanno fatto in tempo a recuperare gli originali e che non saranno mai troppo fiscali su eventuali differenze di tono e qualità.

Con buona pace di ogni perplessità e interrogativo e senza che la ruota abbia una qualche speranza di interrompersi, tanto vale provare a godersi la corsa senza aspettarsi nulla e riservarsi l'opportunità di essere sorpresi piacevolmente, ma come nel caso della Cinderella di Kenneth Branagh e del Maleficent con Angelina Jolie anche il Beauty And The Beast di Bill Condon non è riuscito a scrollarsi di dosso la patina di plastica insapore che sembra infestare tutti i suoi precedessori.

Non si può dire che al film manchino sfarzo e colore: ci sono i costumi e le scenografie, una CGI ben curata che non disdegna il gotico e il romantico quanto lo spettacolo più sfavillante (il numero di Be My Guest, ma anche l'essenziale scena del ballo), coreografie che provano ad allontanarsi dal cartonato per seguire i binari del musical. Il luccichio del comparto tecnico non è però un alibi sufficiente per due protagonisti privi di qualunque chimica e carisma, con una Emma Watson (fortemente voluta dagli Studios in quanto perfetta incarnazione della ragazza sensibile e studiosa dopo l'esperienza potteriana) rigida e impacciata e un Dan Stevens poco ferino e passionale a fronte della splendida controparte del cartone; gallerie di oggetti animati e pure dal character design discutibile a parte, ad azzeccare davvero il tono sono solo il nemico numero uno Gaston, grazie a un Luke Evans parecchio divertito, e il Le Tont di Josh Gad, usato ad hoc per alzare un gran polverone quando i riferimenti all'omosessualità tanto chiacchierati sono così blandi da passare facilmente inosservati agli occhi di un bambino.

La scelta di ritradurre i testi storici delle canzoni per consentire al labiale degli attori di sincronizzarsi maggiormente col doppiaggio è una novità disorientante, ma il bisogno di approfittare del nuovo mezzo per ampliare e arricchire si rivela il prezzo da pagare più alto, con le background story dei protagonisti annaffiate di clichè che finiscono per oscurare le intuizioni migliori: va bene regalare un passato ai nostri eroi, ma il bisogno di dover sempre giustificare l'imperfezione schermandola dietro a un trauma o a una delusione e impedendo ai protagonisti di essere ciò che sono senza giustificazioni a oltranza può fare un gran male.


Thirteen Reasons Why

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"I had all and then most of you
Some and now none of you
Take me back to the night we met
I don't know what I'm supposed to do
Haunted by the ghost of you
Oh, take me back to the night we met"
(Lord Huron, The Night We Met)

Come ci insegna il Bardo guardando con onestà sorprendente a quegli scavezzacollo sconsiderati di Romeo e Giulietta, gli adolescenti non sono molto bravi ad accettare mezze misure e compromessi, pulcini incapaci come sono di liberarsi del tutto dei frammenti accoglienti del loro guscio per spiccare finalmente il volo verso il futuro, anche a costo di sbattere a più riprese contro un ostacolo per ripartire ogni volta più forti di prima. Che la vita sia una battaglia e che la felicità non sia un assoluto è un'ovvietà che impari presto, ma a quattordici anni la fame di quell'esistere così pieno e sconosciuto è talmente grande che non puoi che scegliere deliberatamente di non sentire: varchi per la prima volta il cancello delle superiori con la certezza che o sarà tutto meraviglioso o finirà in un disastro totale, cerchi disperatamente di farti accettare da coetanei che ogni giorno sembrano stare lì solo per dirti che saranno sempre più sicuri, più belli e più in gamba di te, riesci a ritagliarti un piccolo spazio nel girone infernale della scuola ma basta una mezza parola o un banale fraintendimento per sentirsi dire che è finita, l'affronto che hai fatto è troppo grande per poter essere perdonato e dimenticato, torna pure nel tuo eremo di solitudine che a nessuno importa niente di te e mai importerà. 
Ti butti sui libri con tutta l'energia che riesci a trovare o li abbandoni del tutto, alla ricerca di qualcosa che possa rendere giustizia alla persona che vorresti essere ma non ce la fai, perchè una cattiveria dopo l'altra la linfa che dovrebbe nutrire l'adulto che diventerai viene succhiata via e divorata da un dolore che sembra insostenibile, il tarlo del niente che nulla vede e nulla ascolta, neppure l'amore e la disponibilità della famiglia che ti ha sempre amato; solo un piccolo assaggio di una maturità di sofferenza da cui non hai ancora i mezzi per difenderti e dinanzi alla quale il bambino che è in te reagisce nell'unico modo che conosce: diventare egoista e scappare via per non provare più dolore, smettere di remare e lasciarsi inghiottire dalle onde, se necessario, anche verso la fine.

La vera forza di Thirteen Reasons Why(Tredici), nuova serie cult di Netflix capace di macinare consensi e scatenare polemiche e perplessità senza alcuna barriera generazionale non è soltanto la scelta di scoperchiare un vaso di Pandora scomodo come quello del suicidio di una sedicenne, analizzandone cause e conseguenze fra apparenti banalità adolescenziali e traumi indelebili, ma soprattutto il riuscire ad aprire una breccia nell'animo travagliato di giovani e non più giovani con l'onestà e il cuore di chi non ha paura di sporcare la patina del teen drama tradizionale in nome di un racconto più vero.

Hanna, Clay, Jessica e gli altri ragazzi della Liberty High School non sono belli e dannati figli di ricconi che nascondono la propria infelicità nelle ville di lusso della California, non hanno la parlantina interminabile degli abitanti di Capeside ne la stessa instancabile e filosofica capacità d'analisi e non vivono situazioni familiari al limite del paradosso con fratellastri e matrigne pronti a saltare fuori all'occorrenza per non restare a corto di intrighi: ad attraversare i tredici episodi con l'ineluttabilità dei Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie aspettando con terrore che venga sentenziata la loro parte di colpa nella fine di Hanna Baker sono ragazzi normalissimi con volti normali e mai prorompenti, figli fortunati (con un giusto un paio d'eccezioni) e amati da padri e madri che non riescono a vedere il loro disagio perchè i problemi della vita sono ben altri e tutto si può superare: perchè gli adulti sanno che il liceo prima o poi finisce e per questo amano dimenticare il buio di ciò che è stato, assorbiti da una quotidianità di lavoro, conti e pensieri che ha tutto il diritto di stare lì, ma che finisce facilmente per condizionare la loro capacità di ascoltare e accettare che anche la più piccola delle delusioni può avviare il domino del disastro. 

La macchina narrativa è ambiziosa e le forzature e i difetti non mancano, con la povera Hanna che diventa suo malgrado un paradigma di sventure, un intreccio che domanda pazienza e non è esente da vistosi cali di ritmo e un cattivo senza redenzione che avrebbe meritato maggiori sfaccettature e che diventa piuttosto il simbolo di un male nazionale che persiste e non arretra, al sicuro in quell'alcova di privilegio tutta sport, denaro e competizione che gli States hanno sempre incoraggiato a discapito di sensibilità individuale e delicatezza; eppure, la fotografia scattata da Thirteen Reasons Why resta potente e preziosa, tanto nei momenti di straziante insicurezza e romanticismo dei suoi protagonisti quanto nei passaggi di  riflessione brutale e violenta, per andare fino in fondo anche a costo di alzare un polverone e sconcertare l'innocenza di chi guarda: i genitori che certe cose non vorrebbero sentirle, i figli che demoliscono con facilità i compagni certi che una parola non possa ferire quanto il taglio di una lametta sulla pelle o che si abbandonano alla fantasia negativa del suicidio immaginando che sia una dolce soluzione, per svegliarsi con uno schiaffo e scoprire quanto tutto sia dannatamente atroce, sgradevole, sporco e spaventoso. 


The Light Between Oceans

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"We can't rightly talk about the future if you think about it. We can only talk about what we imagine or wish for. It's not the same thing."

Metti un romantico faro su un'isoletta ritirata e tranquilla al largo della costa australiana, con tramonti mozzafiato su un panorama da cartolina e il solo rumore delle onde a fare da sottofondo, metti che il guardiano del faro sia un uomo tormentato dal ricordo assordante delle trincee della Grande Guerra e che abbia il volto di Michael Fassbender, metti una ragazza anche lei provata dal Conflitto e ansiosa di formare una nuova famiglia con un'infinito tappeto d'acqua e d'amore a far da barriera contro il dolore del mondo, metti che questa fanciulla abbia i tratti dolci e testardi della piccola Alicia Vikander, che sembrerebbe essersi innamorata del Fassbender proprio sul set di questo film perchè in certe circostanze a giocare a moglie e marito è difficile rimanere indifferenti: il biglietto da visita di The Light Between Oceans (La Luce fra gli Oceani) è infiocchettato abbastanza bene da spingerti a salire a bordo senza tante storie, per venderti una love story dal pedigree impeccabile con due protagonisti belli e bravi, una splendida cornice paesaggistica a riempirti gli occhi e una dose massiccia di lacrimoni per farteli bruciare.

L'unica condizione è accostarsi alla visione consapevoli che questo è tutto ciò che otterremo: tratto dal bestseller di M.L. Stedman, The Light Between Oceans è un bel melodrammone della nonna con prove attoriali sopra le righe e profondità scarna laddove si sarebbe potuto calcare un po' di più la mano e concedere meno spazio al silenzio laddove questo non è abbastanza, per capire lo strazio di Tom e di una generazione distrutta dalla Guerra ma soprattutto quello di Isabel, decisa ad essere madre e disposta a tutto pur di raggiungere lo scopo: la tragedia di una maternità voluta e negata, un istinto naturale che la natura a volte si ostina a non concedere a chi sembrerebbe meritarselo non è sempre facile da comprendere quando corre pericolosamente sul filo dell'egoismo e dell'ossessione, ma forse a ragione di un canovaccio che non ha nessun interesse a scartare la confezione, l'interpretazione di Alicia Vikander non riesce ad andare oltre il nervosismo e l'antipatia ed a esserci di particolare d'aiuto.

Apprezzabile ma non incisivo il lavoro sul percorso parallelo del personaggio di Rachel Weitz, privata del diritto di avere la figlia e l'amore per cui aveva tanto lottato non dalla crudeltà del destino ma dal disperato egoismo di un'altra madre, in un gioco di simmetrie retto a prova dell'universalità dell'amore e delle piccole quotidianità che lo contengono e che ci riempiono la vita sottovoce ogni giorno: tutto sul pelo dell'acqua e a misura di Kleenex, ma con le giuste aspettative comunque dignitoso.



L'Assedio - Troppi nemici per Giovanni Falcone

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Statue agli ingressi delle scuole e murales più o meno elaborati sparsi per le strade di Palermo, sugli edifici e nei musei, la foto della Proclamazione che campeggia piena di speranza e soddisfazione sul cortile della facoltà di Giurisprudenza e persino quel che resta della macchina con le sue lamiere scomposte e accartocciate, la violenza dell'esplosione messa sotto vetro a fotografia imperitura dell'orrore scritto col sangue sul calendario di un infausto 1992: i cenotafi dedicati a Giovanni Falcone vegliano sul Capoluogo siciliano perchè nessuno possa permettersi il lusso di dimenticare, presenti allo sguardo degli uomini e delle donne che hanno vissuto loro malgrado la giovinezza in una città pronta a trasformarsi con regolare e terribile frequenza nel set di uno spietato western metropolitano, ma anche delle nuove generazioni di ragazzi troppo piccoli all'epoca dei fatti o nati dopo quegli anni terribili.

La linea che corre fra la lealtà al ricordo e la beatificazione è tanto sottile quanto pericolosa nell'avanzare con insistenza martellante un'unica domanda: chi era davvero l'uomo alla cui memoria cerchiamo disperatamente di aggrapparci? Come si è potuto lasciare che rimanesse tanto solo da finire nella rete degli uomini che stava cercando con ogni mezzo di combattere e dov'erano lo stato, i colleghi, gli amici che avrebbero dovuto supportarlo e proteggerlo? è un viaggio doloroso ma necessario, descritto con finezza di dettaglio e coraggiosa sagacia, quello che Giovanni Bianconi compie ne L'Assedio- troppi nemici per Giovanni Falcone, cronaca di una Guerra lunga e insidiosa che ha visto in fine i migliori servitori dello stato cadere sotto i colpi di cannone della criminalità organizzata, aprendo brecce sulla mura che avrebbero dovuto proteggerli e che si sono fatte fragili sotto il peso di invidie e gelosie o semplicemente della mancanza della lungimiranza necessaria nel guardare oltre la linea dell'orizzonte, al di là del Panorama di cavilli, burocrazia e corruzione proposto dal Regno D'Italia e dai suoi capi palesi e occulti.

Giovanni Falcone combatte nello stato che gli ha conferito poteri e titoli, convive con le spirali politiche che cercano di accaparrarsi il suo favore e di denigrarne onore e onestà liquidandoli come una farsa continua e ben orchestrata, lotta costantemente per difendersi dai colleghi che dovrebbero appoggiarlo e che preferiscono vederlo come una Primadonna desiderosa di farsi bella agli occhi di Popolino e Istituzioni: persino intellettuali e scrittori, Leonardo Sciascia incluso, non ci vanno leggeri e insistono senza tregua, dimenticando con facilità che il biglietto della notorietà ha una sola permanente destinazione, premiata con tutti gli onori da una lapide di marmo più grossa delle altre.

Il Giudice però continua a combattere e non arrendersi, prova a riprendersi le piccole cose che rendono un'esistenza umana degna di essere vissuta (la permanenza a Roma che gli consente il lusso di andare a cena fuori o semplicemente di uscire a comprare scopa e secchio per pulire il suo nuovo appartamento), si tiene stretti i pochi alfieri che gli sono sempre stati leali, mentre fuori dalle Mura altri cospirano per abbatterlo con la stoica pazienza di cattivi da romanzo; l'assedio cambia volto e si trasforma nella cronaca di un viaggio verso la morte che pagina dopo pagina non possiamo arrestare, mentre le punte di diamante di Cosa Nostra si incontrano per discutere il da farsi con toni spesso surreali, lontani dall'immagine solenne inventata dal Padrino cinematografico e per questo ancora più letali nella loro spietata e ignorante furbizia, fino al terrificante momento in cui il tritolo prende forma e trova il suo posto sulla strada.

In un turbinio di nomi e volti più o meno conosciuti, sovrani, giullari o semplici comparse nella ballata tragica di un Reame Repubblicano che non c'è più, L'Assedio giunge al suo epilogo raccogliendo i frutti amari di un Paese che non ha voluto proteggere i suoi figli migliori, ma che è ancora in tempo per cambiare le cose e scrivere un lieto fine alla sua triste storia: perchè nel maggio 1992 è andata così, ma non dovrà andare così mai più. 

A Ghost Story

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Ci piace pensare che le storie di fantasmi debbano essere sempre creepy e spaventose, di quelle che ti fanno saltare in aria davanti allo schermo quando un amico ti pizzica scherzosamente o che non ti fanno dormire la notte, facendoti sussultare al primo crepitio quando vedi gli armadi dischiudersi con fare sinistro e gli oggetti sembrano finire a terra senza un perché, come se la gravità si accanisse su di loro per il mero piacere di farvi arrabbiare.

Difficilmente nel brivido del momento troviamo però il tempo e la voglia di soffermarci davvero su quali storie si nascondano sotto il lenzuolo bianco o fra le maglie delle catene di questi spiriti inquietanti e incaponiti, soli con sé stessi e il proprio abisso senza che nessuno possa vederli né sentirli se non per fuggire via in preda allo sconcerto e al terrore, un'eternità di silenzio da affrontare fra quelle mura che un tempo raccoglievano felicità, discussioni e briciole di una vita intera e che adesso sono solo lo scheletro di ciò che è stato, l'ultima rocca a cui aggrapparsi per non sparire del tutto dal ricordo di chi li ha amati tanto ma non può fare a meno di andare avanti.

A Ghost Storyè un film piccolo girato quasi del tutto in una stanza, con la camera puntata su quella cucina/sala da pranzo dove la quotidianità fa il suo giro giorno dopo giorno nella buona e nella cattiva sorte, che si prende una bella dose di rischio nell'usare due attori di calibro come Rooney Mara e Casey Affleck giusto per una manciata di scene prima di annullarli nel flusso atemporale degli eventi (sotto al lenzuolo del marito defunto potrebbe esserci chiunque), semplici archetipi che non hanno neppure bisogno di un nome completo per raccontarci la loro storia: la storia di una partita con la morte persa in partenza eppure vinta con l'amore, l'unica ragione per cui continuiamo ad alzarci la mattina pur consapevoli che i figli dei nostri figli affronteranno lo stesso identico percorso di inizio e fine di ogni cosa, l'unico modo per combattere la paura del nulla quando spegniamo la luce a tarda notte e affidiamo i nostri sogni al buio, sperando che la nostra memoria non si sbricioli nel tempo senza che rimanga più nulla di ciò che abbiamo avuto.

A Ghost Story sta tutto lì, nel racconto di una vita che è finita e che nei suoi lunghi silenzi si ingozza di torte mangiate controvoglia con le lacrime e si strazia di malinconia e solitudine, ma che si ritrova senza faccende in sospeso una volta compreso che anche se per poco e a dispetto di un destino bastardo vale sempre la pena di esistere: eccolo il lascito dell'affetto che doniamo agli altri e che loro prima o poi loro si porteranno via, nelle briciole che gli lasciamo nel cuore e che ci permetteranno di vivere altre vite che non vedremo, nascoste in una canzone o nel passaggio di un libro che raccontava di noi e delle piccole cose che ci rendevano felici, o in un pezzo di carta incastrato in una crepa nel muro della casa che ci ha protetto dai pericoli del mondo finchè ha potuto, abbastanza da permetterci di abbandonare il lenzuolo e affrontare finalmente l'ignoto.


The Beguiled

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Non è poi tanto difficile capire cosa passi per la testa di John McBurney, caporale dell'esercito nordista scampato per caso alla fine grazie al soccorso di un sparuto gruppo di donne, insegnanti ed educande dimenticate in un collegio del Sud nel bel mezzo della Guerra Civile: quale fantasia avrebbe potuto essere più eccitante per un soldato, ferito e braccato dal nemico e da un conflitto che ha già sottratto tanti uomini al calore di una donna, dell'avere intorno tante vergini carine e indifese pronte a guardare con curiosità e interesse all'affamato avventuriero a cui hanno fatto salva la vita, ancelle di un tempio pagano protette dal mondo in subbuglio unicamente dal fitto del bosco e dalla monotonia delle giornate. 

In The Beguiled(L'Inganno) di Sofia Coppola, secondo adattamento dell'omonimo romanzo dopo l'epocale film di Don Siegel con Clint Eastwood (in Italiano La notte brava del soldato Jonathan), le differenze fra i sessi imposte da convenzioni sociali e culturali vecchie quanto l'umanità stessa si abbattono ineluttabili sulle signorine dell''800 quanto sui nostri occhi di spettatori moderni e allenati; mentre l'uomo è libero di arginare convenzioni e buone maniere e dare libero sfogo a quegli stessi impulsi che il gentil sesso è costretto a reprimere entro i lacci di camiciole e corsetti, sulle Donne ricade il dovere di proteggere la propria virtù in attesa che un marito rispettabile acquisti il diritto unilaterale di goderne: sempre sotto una campana di vetro, sempre tenute in piedi da stecche di disciplina e autocontrollo, finché la pressione non diventa insopportabile al punto da voler strappare via a morsi perle e bottoni.


L'attenzione all'universo femminile e ai suoi mal compresi conflitti e sofferenze resta il punto più alto del film della Coppola, che piega la storia alle esigenze del suo cinema per raccontare come il gineceo di ninfe compiacenti e vendicative verso il malcapitato soldato nasconda una sorellanza di ancelle dal grido silenzioso, sole con sé stesse e una condanna alla nascita di perenne inferiorità subordinazione e sorrisi, messe alla prova dal brivido del tocco del petto bagnato di un uomo o anche dalla sua semplice vicinanza, costringendoci a domandarci chi sia davvero la vittima e chi il carnefice.

Un lavoro di cesellatura accurato che a rimette a fuoco le motivazioni dei personaggi epurandoli di gran parte delle loro caratteristiche più inquietanti e sgradevoli, le stesse che avevano riempito di morbosità e passione la pellicola di Siegel e delle quali è difficile non sentire la mancanza, spingendo il suo cugino più giovane a un confronto impari a e un rischioso corto circuito nelle intenzioni: nel conflitto fra il contegno imposto al suo sesso e la romantica speranza di una vita diversa priva di desolazione e isolamento, indissolubilmente legata all'attrazione carnale per il bel caporale, un personaggio "coppoliano" come Edwina (non per niente affidato all'attrice feticcio di Sofia, Kirsten Dunst) non può che trarre giovamento dal tocco inconfondibile e fortemente femminile della regista; ad uscirne malconce sono piuttosto la Miss Martha di Nicole Kidman e la Alicia di Elle Fanning, ombre appena abbozzate delle amazzoni sensuali e travolgenti che rendevano splendido il film del 71' mostrandone tutto lo sporco e la perversione, più che all'altezza della loro controparte maschile.

Un inganno che non inganna chiarendo sin dall'inizio di voler restituire un ritratto più empatico e meno goticheggiante, ma non necessariamente onesto rispetto all'essenza della storia, di un universo femminile strozzato con puntualità secolare da quello maschile, nella gabbia di un immacolato purgatorio dove il silenzio e il vuoto scandiscono il tempo sin dai titoli di apertura (al font pop dai colori sgargianti che aveva segnato il tono postmoderno di film come Marie Antoniette si preferisce un raffinato corsivo in rosa pastello), con la fotografia cristallina di Philippe Le Sourd a rischiarare la vetrina; quando il composto lampadario della forma si frantuma finalmente in mille pezzi, a finire sulla strada è il cadavere di un sogno infranto e prontamente buttato via, in un sacco cucito con mano meticolosa come la sofferenza di una donna: per riuscire ad andare avanti, mantide o angelo che sia, senza venire mai meno a sé stessa e alla propria forza, in un mondo che forse non smetterà mai di essere del tutto cieco e sordo.



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