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Vikings 4x10: The Last Ship

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Il duello finale, lo scontro fratricida, la resa dei conti che attendeva di esplodere sin dalla prima stagione e che trova finalmente una sua risoluzione, se pur momentanea e non sappiamo quanto duratura: il decimo episodio The Vikings intitolato The Last Ship segna l'inizio dello iato che rivedrà la serie riprendere in settembre per rigenerarsi in una linea temporale del tutto inedita, confidando che lo stratagemma del salto temporale possa restituirle nuova linfa com'è consuetudine nel mondo seriale.

Le battaglie di Vikings sono sempre state epiche e galvanizzanti e il suo assalto a Parigi non è da meno: stavolta però Ragnar e Rollo combattono su due fronti troppo lontani per poter immaginare una riconciliazione: per Ragnar Rollo è soltanto il fratello che ha tradito il suo sangue e la sua patria per seguire il miraggio dell'ambizione e la sete di vendetta del re, ormai sono un'ombra del guerriero e del sognatore che era un tempo, deve essere appagata.

Nella prima mezz'ora dell'episodio tutto è già finito e concluso con devastanti conseguenze per i Vichinghi: le forze dei Franchi riescono a prevalere, Ragnar e i suoi vengono messi in fuga gravemente feriti nel corpo e nell'animo, a Kattegat il veggente piange il lamento di un mondo la cui fiamma guerriera si fa sempre più debole mentre Rollo, il volto tumefatto per le ferite riportate dopo uno strenuo combattimento, viene accolto a Parigi come un eroe e onorato da un imperatore che sceglie di concedergli una fiducia incondizionata e inattesa; tutti coloro che stavano giocando la partita del trono alle sue spalle sono stati prontamente eliminati, Rollo sa qual è il suo posto ed è disposto a qualunque cosa pur di difendere una città che ha saputo restituirgli la gloria che aveva sempre cercato all'ombra del fratello, ma soprattutto la convinzione di essere un uomo degno dell'amore della sua sposa e un condottiero rispettato da una civiltà riconoscente; Il Duca di Normandia ha vinto la sua battaglia e noi non possiamo che esserne contenti.

Dopo una fuga umiliante ma necessaria per salvare quanto rimasto delle proprie forze, Re Ragnar sparisce dalla faccia della Terra abbandonando per anni feudo e famiglia al loro destino: il salto è sufficiente a far crescere i figli del re e a trasformarli in uomini forti e caparbi a sufficienza per contendersi il trono, mentre Aslaug e gli altri adulti non invecchiano abbastanza da rendere visibile la percezione del tempo trascorso: difficile dire quanto tempo sia effettivamente passato, ma che nessuno abbia pensato di reclamare il trono reso vacante da Ragnar (che fine hanno fatto i fratelli Finehair?) sembra incoerente quanto poco verosimile.

Con la spada del re conficcata nel terreno e una sfida lanciata da un capo redivivo e ormai al capolinea Vikings entra in pausa lasciandoci con parecchi interrogativi, primo fra tutti se quella di aumentare il numero degli episodi sia stata effettivamente una buona idea e se l'economia della narrazione non ne abbia risentito in modo irreparabile: il momento dell'addio ai personaggi che tanto abbiamo amato si fa sempre più vicino e non sappiamo ancora se le nuove leve sapranno tenere testa a un'eredità egregia come quella delle tre stagioni precedenti, ma la storia va avanti implacabile e spietata, a nuovi condottieri ne seguono altri e gli spargimenti di sangue si susseguono senza tregua, ciascuno dietro una promessa di ricchezza e potere che cambia solo il Dio a cui votare l'opportunità di una preghiera; nonostante le difficoltà, i difetti e le cadute, questo di Vikings è un viaggio che siamo ancora disposti a intraprendere.

Leggi su cinefilos/serietv: Vikings 4×10 recensione del midseason finale


Gli anni al contrario

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"Bisognava solo che quelle stupidaggini passassero: tutto passava, specialmente la gioventù."


Gli anni al contrario di Nadia Terranovaè la prova che per trovare il cuore di una storia e dei suoi protagonisti non occorre macerare la lunghezza di un tomo con fiumi d'inchiostro e scegliere una prosa forbita: figli di due padri agli antipodi per idee ed estrazione ma entrambi vittime in un modo o nell'altro di quella forza irresistibile che porta i genitori a condizionare le scelte di vita del loro stesso sangue, Aurora e Giovanni si conoscono e si innamorano all'Università sognando che lo studio regali loro l'emancipazione dalle famiglie e l'opportunità di fare davvero la differenza; la loro danza è un Valzer instabile che si consuma in fretta, passando dall'azzurrino dell'innamoramento e degli ideali pieni di speranza(mai copertina fu poeticamente più azzeccata) al bianco del matrimonio e al rosa della nascita, con una bambina frutto di un' incoscienza giovanile pronta a farsi guidare dagli imprevisti perché ogni cambiamento ha il sapore dell'ignoto da esplorare e per fare gli adulti ci sarà sempre tempo.

Purtroppo, tutto passa, specialmente la gioventù: il ritmo della danza si fa frenetico e i passi pesanti, come l'amarezza dell'esistenza che tradisce le aspettative e domanda qualcosa che nessun' anima di bambino potrebbe mai accettare per sé stessa, gli anni corrono via uno dietro l'altro annebbiando il sentimento di insoddisfazione e impotenza, mentre Aurora e Giovanni tentano di seguire il ritmo forsennato del tempo finendo per perdere l'equilibrio e cadere, senza trovare mai del tutto la forza di rialzarsi e ripartire.


Intorno ai protagonisti ci sono i due capifamiglia, l'Avvocato e il Fascistissimo che confabulano teneramente nel tentativo di mettere in riga i loro ragazzi e proteggerli dalla stessa disillusione che in modo diverso aveva afflitto anche loro, gli amici di Giovanni col fascino bohemienne di chi riesce sempre a stare al centro del mondo e a fare la cosa giusta, la dolce sorellina di Aurora capace di trovare dolcezza laddove dovrebbe esserci solo grevia rassegnazione, la Droga e i suoi fantasmi che si aggirano nella notte fra i vicoli e le stazioni promettendo sollievo ad anime inappagate e infelici e soprattutto Mara, la figlia di Aurora e Giovanni, che guarda ai genitori con gli occhi del racconto conscia di quanto abbiano bisogno d' amore e perdono e non di giudizi taglienti; pulita e scorrevole, la prosa di Nadia Terranova li segue e li accompagna tutti, senza risparmiarci la crudeltà di una discesa verso il baratro inarrestabile e dolorosa ma anche concedendosi tratti di grande delicatezza e commozione, sullo sfondo di una Messina che si fa Terra di confine in bilico su quello Stretto che la taglia e la protegge dal resto del mondo.

"Moglie e figlia dormivano abbracciate sul divano, vestite di tutto punto e pronte per uscire. Il sonno le rendeva uguali, pensò Giovanni, e si disse che i grandi, in fondo, non sono che bambini sopravvissuti."

Se non ci fossero stati gli anni 70', l'eredità di una promessa di rivoluzione spezzata dal miraggio della lotta armata e da un sistema capace solo di fagocitare sè stesso e mimetizzare le sue mancanze fra gli sbuffi di fumo delle riunioni di partito, forse il destino di Aurora  e Giovanni sarebbe stato diverso, o forse no: alla fine, siamo tutti figli di genitori speranzosi e risoluti e ci culliamo nell'imbattibilità di una gioventù piena di aspirazioni e sogni, solo per essere subito dopo abbandonati a noi stessi dalla solita gretta e ben oliata macchina di fango e scartoffie.

Così, mentre il soffitto ci schiaccia col peso di una solitudine troppo grande e dell'incognita del domani cerchiamo di dare quello che possiamo e di trovare la persona giusta, di sopravvivere alla somma di tutti gli errori commessi, dei lutti e delle delusioni, confidando che le cose buone che facciamo siano abbastanza da bilanciare il contraccolpo; per continuare a ballare, traballanti e incerti ma ancora resistenti, il valzer di una vita che ci fa girare sempre al contrario ma il cui ritmo resta sempre irresistibile.

"Dunque, ecco i miei occhi: quelli della picciridda che quando nacque spaventò suo nonno più di un mafioso e meno di un professore di matematica. Non sono seducenti come quelli di mio padre né lunari come quelli di mia madre; sono la mia valigia, la mia infanzia senza tempo, la certezza che me la caverò perché me la sono già cavata – sono semplicemente tutto ciò che mi serve per continuare a raccontare."

Anton.

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Ormai sta diventando una triste abitudine: passi lunghi periodi senza scrivere perchè urge portarsi avanti con altre cose più grevie ma necessarie e poi arriva lei, la morte eccellente dinanzi alla quale devi costringerti a fermarti un momento a rimettere insieme i pensieri, per quanto bene abbiano provato a nascondersi. 

Un'altra morte eccellente per questo malinconico 2016, anche se non quanto quelle recentissime di Abbas Kiarostami Michael Cimino, registi fondamentali che però devo confessare non conosco ancora abbastanza per scriverne un panegirico ed essere sinceramente dispiaciuta(si, mi sto già preparando per la walk of shame con la suora rugbista di Game of Thrones): Anton Yelchin se n'è andato via in fretta, ventisette anni finiti in un incidente assurdo che sembra uscito dritto dritto da un film della serie di Final Destination, la promessa di una vita fortunata beffata da una morte annoiata in una domenica di Giugno.


Una carriera ancora acerba, fatta di piccoli ruoli in grosse produzioni come il riavvio del Franchise di Star Trek, dove le sue origini russe avevano aggiunto una punta di gradevolezza in più alla sua performance nei panni di Pavel Chekov, e parecchio cinema indie: non un volto molto conosciuto, non un Heath Ledger che aveva già annunciato la sua grandezza con una prova monumentale in grado di nutrire la leggenda. Perchè allora mi fa così male? Per quello che avrebbe potuto essere e non sarà mai, certo, ma anche per altri motivi molto meno confezionati e assai più egoistici: vedi un film ancora ragazzina e ti capita di identificarti e affezionarti tanto al protagonista, pensi che anche quell'attore bambino con cui ti togli appena qualche anno crescerà e sai che ogni tanto potrai sbirciare nel suo futuro e che lui starà lì, da qualche parte, come te, finchè ogni cosa non finisce accartocciata e asfissiata in pochi spietatissimi minuti, e poi più nulla.


Avevo conosciuto per la prima volta Anton in Cuori in Atlantide di Scott Hicks (2001) e gli avevo voluto bene subito, una testolina riccia dallo sguardo malinconico e dolce nei panni di un ragazzino undicenne con la passione per la fotografia e la forza sovrumana di un'infanzia di cose semplici e grandi sogni, nella monotona Provincia Americana degli anni 60'; un ruolo con cui è impossibile non identificarsi almeno un po' e che mi è rimasto nel cuore (spuntarla contro Sir Anthony Hopkins in così tenera età non era cosa da poco), quello del piccolo Bobby Garfield, proprio come il protagonista di Like Crazy di Drake Doremus, che con ricci più pacati e l'altezza dei vent'anni lo vedeva misurarsi nel 2011 ormai adulto col racconto di un ingestibile amore a distanza.


È vero, personaggi e attore si confondono e non si capisce più dove inizi uno e cominci l'altro, ma in fondo è così quando un amico che non vedi da tanto tempo muore giovane: i ricordi belli che abbiamo si mescolano al resto e ti restano solo i frame migliori, quelli che si è condivisi insieme, ridendo piangendo e facendosi compagnia, laddove si poteva, laddove si doveva, col tempo che rimaneva dalla quotidianità che puntualmente ti trascinava altrove, anche con le migliori intenzioni di restare in contatto e non perdersi mai.


In Cuori In Atlantide il Ted Brautigan di Anthony Hopkins dice che quando si cresce il cuore non può evitare di spezzarsi in due, amareggiato da tutto il dolore e le delusioni che è costretto a vedere e a sopportare: Anton oggi non c'è più e il mio cuore si è spezzato un altro po', lasciando un'altra impronta senza proprietario sul sentiero di chi cresce e corre con te facendoti sentire al sicuro e meno solo per la sola ragione di esistere, molto lontano, da qualche parte.



Le Petit Prince

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"Growing up is not a problem. Forgetting is."


"Gli adulti non capiscono mai niente da soli ed è una noia che i bambini siano sempre eternamente costretti a spiegar loro le cose": un bel problema dover diventare grandi, piombare in un mondo fitto di responsabilità dove vorresti essere finalmente libero di trovare il tuo posto nel mondo e invece tutti si aspettano da te la realizzazione di quel progetto insaziabile in cui nulla sembra essere mai abbastanza, il grande piano di battaglia a cui è opportuno iniziare a lavorare alacremente sin da ragazzini in nome di un futuro che verrà, volenti o nolenti, per inserirci nella grande macchina della vita e del lavoro e chiamarci adulti una volta per tutte. 

La vera tragedia non è però tanto crescere, assecondare il tic tac che trasforma i giorni in anni e gli anni in decenni facendoci abbandonare lentamente le matite colorate e i giocattoli per le cravatte, i tailleur e i daily planner, quanto finire per dimenticare la leggerezza dell'animo fanciullesco che era in noi e che sapeva portarci dovunque, senza bisogno di spiegazioni, in una nuvola di fantasia animata dalla speranza e dalla voglia di fare e di scoprire; la vera tragedia è annichilire nella catena di montaggio e ingrigire piano piano, senza più memoria delle piccole semplici cose meravigliose che ci davano la forza di lottare e di vivere, lasciandosi risucchiare dal sistema senza avere più nulla da donare a noi stessi e agli altri.

Un messaggio che Il Piccolo Principe di Mark Osborne non si cura di sottintendere neanche un po', scegliendo un canovaccio essenziale e collaudato per assicurarsi che gli adulti, seduti accanto ai loro figli e convinti di aver dato loro un film a misura di bambino, abbiano sentito forte e chiaro e si siano fermati ad osservare senza fretta le stelle del cielo almeno qualche minuto dopo la visione.


Un film d'animazione che non cerca mai la complessità e la costruzione degli splendidi lavori con cui la Pixar ci ha ormai viziati e male abituati, preferendo seguire le orme della sua illustrissima ispirazione letteraria (chi scrive forse è fra i pochi al mondo a non aver mai letto Il Piccolo Principe di Antoine De Saint Exupery pur avendolo in casa da millenni) e inserirlo in una cornice che potesse sostenere il peso dell'omaggio evitando di inciampare in una compiaciuta autocelebrazione, un passaggio di testimone come quello che avviene dal libro al lettore, dai piccoli ai grandi: la bambina di cui non ci è dato nemmeno sapere il nome è prigioniera della vita spenta che la madre vorrebbe proporle senza stimoli altri che il dovere ordinario e meticoloso, fa amicizia con un vecchio e bizzarro aviatore (probabilmente lo scrittore stesso, se solo la guerra e il destino gli avessero permesso di vivere più a lungo) che le racconta la storia del Piccolo Principe e si lascia conquistare come tutti noi dalle immagini e dalle parole più ispirate del racconto, trasposte sullo schermo con una deliziosa stop motion che batte nettamente per colpo d'occhio il resto dell'animazione digitale presente nel film.

Laddove è palese l'intento di sottolineare i colori luminosi e la delicata poesia della fantasia dell'opera originale contro una realtà squadrata da vialetti tutti uguali e uniformi scolastiche smorte non c'è nulla che si possa davvero recriminare: la piccola deve imparare la lezione e compiere il viaggio necessario a combattere le sue paure, rompere il globo di vetro che la tiene prigioniera dell'incubo di un avvenire senz'anima e lasciare fuggire le stelle liberando il ricordo del Principe stesso, anche lui annebbiato dalla frenesia del tempo e così condannato a crescere perdendo la memoria di ciò che era una volta (una deriva che arriva dritta dritta da Hook - Capitan Uncino), perchè possa ritornare fresco mito e prendere per mano ognuno di noi; in mezzo passano sottilissime temi di peso come l'accettazione della morte, il vuoto lasciato da un padre assente e riempito malamente da regali tutti uguali, la malinconia dolce dei ricordi che credevi polverizzati al vento e che invece alla fine con un po' d'impegno trovano il modo di tornare in vita, all'alba luminosa di una giornata come un'altra.
Niente di particolarmente nuovo e originale, ma a volte basta poco per rendere una rosa simile a molte altre la più bella e la più preziosa fra tutte.


Outlander, season 2

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"Lord, ye gave me a rare woman, and God! I loved her well."

Non importa quanta energia e volontà i più coraggiosi viaggiatori possano investire nell'impresa: il passato non si può cambiare e i punti fissi sulla scala del tempo sono destinati a ripetersi senza pietà alcuna per chi si è suo malgrado trovato ad averli vissuti in prima persona, lottando disperatamente per sopravvivere e non disperdere la propria memoria in quella folla senza volto che ormai zittita abiterà per sempre le pagine dei nostri libri di storia fra l'annotazione di una battaglia e l'altra; Marty McFly non sarebbe troppo d'accordo, ma nella migliore tradizione del genere Outlander non poteva che attenersi alle regole e rispettarle alla lettera, in una seconda stagione che grazie a una maggiore compattezza nella narrazione (non più due tranche divise da una pausa ma un unico ciclo di episodi più breve) e a una maggiore varietà di scenari riesce a rendere giustizia alle vicende dei personaggi pur con l'assoluta certezza di ciò che accadrà.

Sappiamo già che Claire tornerà da sola nel 1948 portando in grembo un bambino che verrà cresciuto da Frank, distrutto dal tradimento della moglie eppur egualmente deciso a dimostrarle di amarla ancora nonostante tutto, ma nel bisogno di sapere come e cosa abbia portato la neo Signora Fraser a riattraversare disperata il muro che la divideva dalla sua vecchia vita, il piacere della scoperta di quanto accaduto nel diciottesimo secolo resta comunque immutato; lasciata la Scozia e approdati a Parigi nel disperato tentativo di stroncare sul nascere gli eventi che portarono alla Battaglia di Culloden, lo scontro sanguinoso che per mano degli Inglesi avrebbe segnato la morte della cultura dei Clan e probabilmente dello stesso Jamie, Claire e il marito prendono posto nel bel mondo della corte francese e cercano a tentoni di realizzare il loro piano.

Un'occasione per ammirare abiti sfarzosi, parentesi sbarazzine e intrighi di corte, introdurre personaggi di contorno destinati a rimanere sulla scena non troppo a lungo ma a fare comunque la loro parte egregiamente (il saggio farmacista e la frivola ma affezionata Contessa quelli che ci sono piaciuti di più) , ritrovare nemici storici che continuano a nascondere la propria perversione sotto una maschera di apparente rettitudine e senso del dovere(la cattiveria di Tobias Menzies ci mancherà tanto quanto la disperazione del suo Frank), ma soprattutto portare ad un nuovo livello la relazione fra Claire e Jamie ed esplorare le difficoltà del loro rapporto di coppia, amplificate dai rischi della loro missione ma soprattutto da un trauma capace di lasciare nel cuore di un uomo cicatrici ben più profonde di quelle incise sulla carne da un macellaio senza scrupoli.

Claire e Jamie non riescono più a dialogare come un tempo, le circostanze li costringono a passare molto tempo separati e il ruolo di Cassandra che si ritrova suo malgrado a ricoprire rende Madame Fraser, incinta del figlio di Jamie ma allo stesso tempo preoccupata sopra ogni cosa dal pensiero della futura salvezza di Frank, risoluta ben oltre i limiti consentiti dal fato: Outlander continua a camminare sui binari del romance e dell'avventura, ma approfitta del tragitto per scavare a fondo nei suoi personaggi e spingerli all'estremo con esperienze che vanno ben al di là del classico canovaccio da romanzo, un dolore palpabile che chiunque potrebbe provare e che li rende più che degni di affetto e comprensione. L'anno scorso era stata lo stupro di Jamie, trattato con una cura e un'attenzione per la vittima che raramente si è vista altrove, a dettare il culmine drammatico della prima stagione: stavolta è Caitriona Balfe a rubare tragicamente la scena, con un episodio, Faith, capace di esplorare in modo sincero il trauma umanissimo della perdita di un figlio, comune per l'epoca ma egualmente insostenibile per qualsiasi madre, scegliendo un tono straziante ma mai melodrammatico.

Il dolore personale di Jamie, rivissuto attraverso gli occhi spaventati del piccolo Fergus (altra new entry graditissima) non potrà mai guarire, ma i nostri avranno modo di ritrovarsi e di reintrecciare insieme i propri destini finchè non sarà la Storia stessa a tagliare il filo a colpi di cannone: si torna in Scozia per assistere alla preparazione di una Battaglia che sappiamo essere persa già in partenza, consapevoli che quella Terra vibrante di mistero, atmosfera e tradizioni resterà sfigurata dalla furia di una Storia che non può perdonare nè salvare, abbattendo la sua violenza su uomini, donne e bambini che nel tempo abbiamo imparato ad amare per trasformarli in un'eco lontana e incomprensibile. 
Costruito come un serrato conto alla rovescia verso un finale già scritto e alternato ottimamente alla malinconia di un presente polveroso e ingrigito a dispetto dei vivaci anni 60' che dovrebbero accenderlo, l'ultimo episodio sembra già prepararsi all'idea di lasciare spazio al racconto delle nuove generazioni, rappresentate dai capelli rossi della testarda Brianna Randall Fraser e dal timido e mite Roger "McKenzie" Wakefield, per retrocedere gradatamente la storia degli ormai maturi Jamie e Claire ad un livello secondario: in attesa di saperne di più e di tornare nel diciottesimo secolo un'ultima volta, Outlander ci regala la soddisfazione per un prodotto che sa giocare bene le sue carte e che approfitta di ogni opportunità, facendoci sognare di epoche lontane e amori assoluti con quel pizzico di silliness e improbabilità che tutta la bella letteratura d'intrattenimento dovrebbe possedere, ma senza dimenticarsi di regalarci personaggi indimenticabili e di rendere le loro tribolazioni autentiche e vere.


Da qualche parte nel mondo

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«Facciamo tutti così. Prendiamo desiderio, lussuria, solitudine, attrazione, ossessione, paura, rancore, mancanze e le impacchettiamo tutte insieme, mescolate, mascherate, e ci mettiamo sopra una bella etichetta: AMORE» scandisce le lettere, «ma poi l’amore è un’altra cosa.»

Fino a che punto è giusto farsi influenzare dalla propria simpatia per un personaggio? Leggere un libro è un viaggio che difficilmente si rivela indolore, pronto a trascinarti nel gorgo di un'avventura ignota e a farla tua, per quanto il carattere dell'eroe o dell'eroina di turno possa essere lontano dalla tua visione del mondo e da ciò che per te conta davvero qualcosa; eppure ci sono delle volte in cui non ce la fai e finisci per arrenderti all'evidenza, il personaggio ha un carattere che non riesci a comprendere e si incaponisce nel fare delle scelte che non puoi accettare nemmeno con tutte le attenuanti del caso, tessendo il filo della sua storia egoisticamente incurante del fatto che tu possa o no fermarti un attimo a tifare per lui.

Prima opera di finzione di Chiara Cecilia Santamaria, autrice del famoso blog Ma che Davvero e del libro autobiografico Quello che le Mamme non dicono che dallo stesso blog ha tratto fonte e ispirazione, Da Qualche parte nel mondo ha finito suo malgrado per farmi provare questa indesiderata e scomoda sensazione: pur avendone amato la prosa ricca e la scrittura intensa e profondamente sentita, la storia di Lara non è riuscita a conquistarmi come avevo sperato a causa di una protagonista perennemente concentrata su sè stessa, a ragione di un passato infelice e agitato ma anche di un' indole egoista e respingente forte di un talento innato e mai bisognoso di studio o applicazione alcuna, amato compreso e riverito da tutti alla prima occhiata e adeguatamente indirizzato dalla spinta del personaggio maschile bello e maledetto di turno.

"Forse state solo fingendo per convincervi che i vostri sentimenti siano migliori dei nostri. Di noi che non moriamo per amore.”

Carpe diem e va dove ti porta il cuore, ma l'amore bruciante e la passione non possono bastare sempre e comunque: Lara si lascia alle spalle Roma e i suoi trascorsi di povertà e abbandono, trova nell'amante Delacroix il passaporto per fuggire e correre a Londra verso una nuova vita scintillante e ricca di successi, le sue capacità come pittrice sono talmente abbaglianti da non ritenere neppure necessario qualche anno di accademia: come prevedibile, quando il sostegno sentimentale e professionale svanisce di colpo Lara deve trovare la forza di rialzarsi e di ricominciare, ma il modo in cui sceglie di andare avanti e farsi strada per quanto ammirevole nel suo spirito di indipendenza non può che costare caro a quelli che l'avevano amata in passato e che avevano fatto di tutto per starle vicino. 
Povera Elena, l'amica geniale che ha dovuto lottare con le unghie e con i denti per ottenere il suo master, proveniente da una famiglia non meno disagiata di quella di Lara ma comunque pronta ad accorrere in suo aiuto come nei migliori teen drama americani, Amelia Sedley contro Becky Sharp, ripagata a pesci in faccia con l'egoismo di chi è bravo a prendere e facile a dimenticare ma del tutto incapace di ripagare: tifare per lei e apprezzare lo spirito con cui riesce a venire fuori dai suoi problemi e trovare l'amore, o almeno quello che lei con cuore ingenuo ha ritenuto essere tale, qui era l'unica scelta possibile.

Restano personaggi ben ritagliati come Elio, barman e guida spirituale che chiunque di noi avrebbe voluto incontrare da ragazzo, una madre che trascorre tutta la vita a cercare di venire a patti col proprio fallimento, costretta a risolvere il perenne conflitto con la figlia off screen ma per lo meno destinata a trovare conforto in un benvenuto e inatteso sodalizio femminile, due magnifiche città come Roma e Londra che vivono e respirano con dovizia di dettagli di colori, suoni, odori, anime di caos e pace che si scontrano continuamente com'è consuetudine nelle grandi metropoli: peccato per l'egoismo di Lara e per la sua personalità strabordante, incapace di crescere mai davvero e di mettere da parte con un briciolo di generosità la sua stella per lasciare anche solo per un attimo che anche gli altri potessero splendere di luce propria, sacrificando tutto e afferrando le opportunità della vita dopo aver lottato per emergere ogni singolo giorno, anche senza essere geni incompresi; non solo amore, non solo pulsioni di pancia, non solo brivido e prendere a occhi chiusi quello che ti fa stare bene, ma anche amicizia, ascolto, gratitudine e comprensione.

Novantatrè

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Cosa interessante, la memoria: il tempo ti spinge lontano dagli eventi dolcemente, ti lascia credere che la distanza ti regalerà l'obiettività necessaria per riesaminare le carte e dar voce alla verità, quella vera, l'eco che nessuno era più in grado di sentire, coperto dall'urlo della forca invocato a gran voce dal popolo arrabbiato.

Doviziosamente documentato e arricchito dal supporto della stampa dell'epoca e scritto come uno sguardo contemporaneo su un anno di infamia, Novantatrè di Mattia Feltri non mostra alcun timore né remora nell'analizzare gli Eventi di Mani Pulite epurandoli della dorata placcatura che ricopre sempre con orgoglio la Giustizia senza condizioni: un elenco di nomi infinito e impossibile da ricordare si snoda pagina dopo pagina, portando con sè le storie di chi pur con la macchina della sospetta illegalità ha visto la propria reputazione affondare nel fango senza alcuna possibilità di redenzione, affrontare una carcerazione preventiva umiliante e interrogatori disumani che hanno condotto tanti, troppi, dritti fra le braccia della liberazione del suicidio.

Un quadro generale nettamente diviso fra buoni e cattivi che capovolge le convinzioni dell'opinione pubblica e guarda ai magistrati come a eroi fasulli dalle mani incrostate di sangue, impegnati in una caccia all'uomo divenuta sport nazionale col bene placito dello stato e più occupati a calcare il palcoscenico processuale piuttosto che a ripulire il sistema dalle tangenti tanto vituperate e infestanti: nel tentativo di ritrovare la misura che i Robespierre e i Danton degli anni 90' sembravano aver perso con facilità, Feltri fornisce gli elementi per andare a fondo ma inciampa anch'egli nell'errore di ignorare le sfumature, limitandosi semplicemente a cambiare schieramento; la giostra di politici i cui nomi risuonano ancora oggi per potenza, fascino e placato terrore gira ininterrottamente, attraversa decreti necessari e mai approvati e alza la barra al massimo sull'immagine di uno Stato senza compassione e del tutto assorbito dalla gogna mediatica, ma il desiderio di portare il lettore a trarre le sue conclusioni nel modo più rapido possibile finisce depotenziato da un'esposizione degli eventi non organica e scardinata, priva dell'immediatezza necessaria a coloro che quegli anni non li hanno vissuti o erano ancora troppo piccoli per poterli davvero comprendere.

Per provare ad ascoltare tutte le voci della Storia, Novantatrè di Mattia Feltri rimane una lettura potente e consigliata: il solo rammarico è che il desiderio di fare giustizia e ristabilire una memoria storica pulita e ragionata sia stato offuscato dalla sua stessa purezza d'intenti, troppo difficile da maneggiare quando la barriera fra giusto e sbagliato viene alzata con veemenza tanto tagliente e affilata.

Escobar- Paradise Lost

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Inutile sperare di trovare in Escobar- Paradise Lost la vera storia del Re del Narcotraffico: a dispetto del titolo e della locandina monopolizzata dall'inquietante sguardo di Benicio Del Toro, il film di Andrea Di Stefano non racconta del dettaglio la vita del Patron preferendo filtrare gli eventi di quegli anni attraverso lo sguardo di Nick, ragazzo canadese arrivato in Colombia per inseguire come molti stranieri il miraggio di luoghi incontaminati e di un'esistenza fuori dagli schemi, innamorato della nipote di Escobar e lentamente abbagliato tanto dal carisma dell'uomo quanto dalla apparente onnipotenza.

Usare un personaggio di finzione per arrivare più vicini all'uomo impossibile, cercare di catturarne il mistero e la fascinazione, attraverso gli occhi di un ragazzo che finirà col pagare a caro prezzo la propria ingenuità e incoscienza; uno spunto collaudato che ricorda molto da vicino l'Ultimo Re di Scozia di Kevin McDonald, non solo a livello narrativo ma anche anche nel forte contrasto visivo fra il lussuoso benessere in cui nuota beatamente Pablito, circondato da una famiglia numerosa di parenti e amici grati e riverenti, e l'efferata violenza che il Patron scatena contro chiunque si frapponga ai suoi interessi: nulla ci viene risparmiato, donne bambini e persino neonati cadono sotto le armi e impiastrano del loro sangue la luce ocra, ruvida e sudata delle favelas colombiane, nessuno sfugge a Pablo Escobar, buon padre di famiglia e devoto cattolico, figlio di una Nazione disperata che ogni giorno chiede a Santi e Madonne di salvare il suo benefattore più prezioso, in cerca di una qualsiasi salvezza per sé stessa.

Ammazzato da una lunghissima premessa il film fatica a decollare, alcune ovvietà di sceneggiatura e un montaggio disordinato rischiano di fargli perdere quota in più di un'occasione, ma nei minuti finali la tensione tiene bene e il giovane Josh Hutcherson regge quasi tutto il film da solo facendo un buon lavoro, con un Benicio Del Toro in ottima forma (per quanto più adatto a vestire i panni del Che che quelli di Escobar) ma necessariamente fuori fuoco.

Alla fine, non un capolavoro ne il film definitivo su Pablo Escobar ( per quello tocca rivolgersi alla meravigliosa Serie tv Narcos di Netflix), ma uno spunto interessante, per quanto un po' convenzionale, apprezzabile nel suo tentativo di raccontare una storia enorme e ingombrante per avvicinarla il più possibile allo spettatore: una nota di merito non da poco, per un attore italiano al suo esordio dietro la macchina da presa. 

Tom Hanks, storia di un brav'uomo alla corte di Hollywood

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Chi azzarda paragonarlo a un moderno James Stewart non ha forse tutti i torti: con un curriculum costellato di interpretazioni in cui si impone all'uomo comune di fare appello a tutto il suo coraggio per diventare un eroe invocato a gran voce da circostanze avverse, Tom Hanksè uno di quei attori che tutti potremmo riconoscere in mezzo alla folla e col quale ci fermeremmo a conversare volentieri, rassicurati dalla familiarità del suo volto e da quegli occhi gentili che hanno illuminato tanti personaggi rimasti per sempre nella storia del cinema più vicina al cuore del grande pubblico.

Thomas Jeffrey Hanks nasce a Concord in California, il 9 luglio 1956, figlio di un cuoco itinerante(lontano discendente di Abraham Lincoln in persona) e di un'infermiera: i genitori divorziano quando il bambino ha appena 4 anni, ma dopo lo scossone iniziale gli equilibri della famiglia si riassestano e il giovanissimo Tom vive un'infanzia serena, a dispetto dei nuovi matrimoni dei genitori e dei continui spostamenti che lo costringono a cambiare diverse scuole e abitazioni per seguire il padre in giro per States. 

Dopo il diploma si iscrive alla California State University di Sacramento, ma abbandona presto gli Studi per dedicarsi interamente al teatro, scoperto dopo aver seguito alcuni corsi al college: accettato uno stage a Cleveland Tom decide di dedicarsi interamente alla sua nuova vocazione in Ohio, dove resta per tre anni lavorando spesso dietro le quinte ma avendo anche l'opportunità di misurarsi con Shakespeare sul palcoscenico; arriva nel 1978 il suo primo riconoscimento, il Cleveland Critics Circle Award come miglior attore per il ruolo di Proteo ne I due gentiluomini di Verona. 
Nello stesso anno sposa l'attrice Samantha Lewis, conosciuta in scena, con la quale ha due figli oggi entrambi attori, Colin ed Elizabeth: il matrimonio è però destinato a naufragare e i due divorziano nel 1985.

Giunto a New York continua a recitare Shakespeare e si fa conoscere a Broadway, iniziando a collezionare le prime apparizioni in produzioni cinematografiche e televisive che lo riporteranno presto in California: nel 1980 arriva l'horror a basso budget He Knows You’re Alone, a cui seguono piccole parti nella famosa serie tv Love Boat e nella sitcom Henry e Kip, di cui è coprotagonista.
Ad essere decisiva si rivela però la piccola partecipazione a Happy Days che gli permette di conoscere Ron Howard, al lavoro sul suo nuovo film Splash - una Sirena a Manhattan(1984): sarà proprio Howard, oggi regista affermato e di fama mondiale, a dargli per la prima volta la visibilità che merita nel ruolo di Allen, tenero principe squattrinato che si innamora della Sirena Daryl Hannah.

Nuove proposte non si fanno attendere e Tom recita in diverse pellicole ( Un ponte di guai, Casa, dolce casa?, La retata, Dirsi addio) finché nel 1988 il suo nome non viene notato dall'Academy, pronta a regalargli la sua prima nomination all'Oscar come miglior attore protagonista: diretto da Penny Marshall, Big è storia di un bambino ansioso di crescere che riesce a diventare grande all'improvviso, grazie a un magico indovino meccanico scoperto per caso al Luna park; un motivo ormai caro al cinema ma che all'epoca non poté non conquistare grazie alla genuina performance di Hanks, bambino troppo cresciuto con cui avremmo passato tutti i nostri pomeriggi a giocare saltando sui tasti di una pianola gigante nel nostro negozio di giocattoli preferito. 

Seguono altre commedie minori (Turner e il casinaro, Joe contro il Vulcano) che però non riescono a far decollare la sua stella, fino al fiasco de Il falò delle vanità, diretto da Brian De Palma
Il matrimonio con Rita Wilson, ancora oggi Signora Hanks, è una coincidenza fortunata in un nuovo momento propizio per la sua ascesa: nel 1992 torna a essere diretto da Penny Marshall in Ragazze Vincenti, indimenticabile pellicola sportiva tutta al femminile dove interpreta l'allenatore di una squadra di Baseball Femminile, impellente necessità in una lega sportiva che ha visto tutti i suoi atleti migliori partire per il fronte in piena Seconda Guerra Mondiale; segue il romantico Insonnia d'amore di Nora Ephron, dove interpreta un vedovo con un figlio deciso a restituire la felicità al padre facendo un commovente appello radiofonico, raccolto da una malinconica Meg Ryan

Il balzo del leone arriva però nel 1994, quando la sua interpretazione del ruolo di Andrew Beckett, avvocato omosessuale licenziato perchè malato di Aids dal suo stesso studio legale, gli fa vincere l'Orso d'Oro al Festival di Berlino e L'Oscar come miglior attore protagonista in Philadelphia di Jonathan Demme: una passione per la vita piegata ma mai spezzata, segnata da un grande amore per la professione legale e per l'Opera(il suo monologo in lacrime sulle note di Maria Callas di fronte a un pietrificato Denzel Washington è da brivido), rendono la sua una prova in grado di fare scuola per ogni film del genere. 

Senza darci il tempo di riprenderci dall'intensità di Philadelphia, Tom Hanks riesce nell'impresa vantata fino a quel momento dal grande Spencer Tracy di vincere la statuetta per il secondo anno consecutivo: difficile trovare qualcuno che non abbia corso insieme a Forrest Gump, il commovente e delicato antieroe portato sullo schermo da Robert Zemeckis che ci invitava a guardare la vita con la dolcezza e la curiosità di chi scarta per la prima volta una scatola di cioccolatini.

All'incredibile Exploit di Forrest Gump seguirà una nuova collaborazione con Ron Howard per lo splendido Apollo 13, storia vera di tre astronauti impegnati in una tesissima lotta per fare ritorno a casa dopo il fallimento della loro missione lunare negli anni 60', e il primo film della trilogia di Toy's Story firmato dalla Pixar, all'epoca assolutamente avveniristico del suo uso radicale dell'animazione computerizzata, dove dà voce al cowboy Woody; nel frattempo, passa anche dietro la macchina da presa per dirigere l'interessante commedia Music Graffiti, dove si ritaglia un piccolo ruolo.

Il 1998 è un anno fondamentale, segnato dalla commedia C'è posta per te, dove ritrova Meg Ryan e Nora Ephron per raccontare di come l'amore sia ansioso di rispondere alle esigenze delle all'epoca ancora neonate tecnologie online, ma soprattutto da Salvate il Soldato Ryan di Steven Spielberg, straziante dramma bellico fortemente americano che vede Hanks avanzare e sopravvivere alla devastante macellazione del D-Day (in una delle migliori scene di battaglia della storia del cinema), per poi condurlo coi suoi uomini in un'improbabile missione di ricerca per riportare a casa il Soldato disperso James Ryan: l'esperienza bellica lo affascinerà profondamente, al punto da spingerlo a produrre la famosa serie tv Band of Brothers, di cui dirigerà un episodio, e The Pacific, rispettivamente ambientate sul fronte francese e del Pacifico: nel 1999 continua a collezionare consensi con Il Miglio Verde, diretto da Frank Darabont e tratto da Stephen King, in cui interpreta una Guardia Carceraria del Braccio della Morte combattuta dall'indole gentile e dai misteriosi poteri di uno dei condannati, interpretato dal compianto Michael Clarke Duncan

Gli anni 2000 sono inarrestabili: si comincia con Cast Away di Zemeckis, dove per permettergli di interpretare un novello Robinson Crusoe il regista sceglie di spezzare la lavorazione del film in due tronconi, così da consentire all'attore di perdere il peso necessario per rendere al meglio il deperimento del personaggio; nel 2002 è la volta di Era di Mio Padre di Sam Mendes, dove per la prima volta si misura con un ruolo più oscuro e ambiguo del solito, nel ritratto di un gangster silenzioso costretto a fuggire col figlio dodicenne nell'America del 1931.

Torna a lavorare per Spielberg nel frizzante Prova a Prendermi, dove è un agente dell'Fbi deciso a catturare ad ogni costo il celebre truffare Frank Abbagnale Jr interpretato da Leonardo Di Caprio, e The Terminal, insolita ma gradevolissima commedia che lo vede bloccato all'aeroporto JFK di New York a causa di un colpo di Stato nel suo immaginario paese di provenienza; ha anche l'opportunità di lavorare coi Fratelli Coen nel remake di LadyKillers, ma il film non ottiene particolari consensi. 

Nel 2006 Ron Howard affida a lui il ruolo del Professor Robert Langdon, principale protagonista dei best seller di grande successo firmati da Dan Brown, per la trasposizione del discusso romanzo IlCodice da Vinci: il film ha un successo planetario e qualche anno dopo seguiranno gli adattamenti di Angeli e Demoni(2009) e Inferno, in uscita prossimamente nelle sale. 
Nel 2007 fa coppia con Julia Roberts ne La Guerra di Charlie Wilson, sottovalutato ultimo lavoro del regista de Il Laureato Mike Nichols: i due si ritrovano nel 2011 per L'Amore all'Improvviso- Larry Crowne, seconda prova dell'attore come regista di un lungometraggio che però viene massacrata da pubblico e critica; nello stesso anno arriva il ruolo piccolo ma importante di un Falling Man nell'attentato delle Torri Gemelle in Molto Forte, Incredibilmente Vicino di Stephen Daldry

Nel 2012 l'impegno di trasformismo che gli viene chiesto dal fantascientifico Cloud Atlas, diretto da Lana e Lilly Wachowski e da Tom Tykwer e tratto da un romanzo di David Mitchell è non indifferente: Hanks attraversa lo spazio e il tempo recitando in ruoli diversissimi e alternando repentinamente il comico al drammatico, in una notevole performance globale che è difficile racchiudere entro confini ben definiti; nel 2013 arriva una nuova nomination all'Oscar grazie a Capitan Philips- attacco in mare aperto di Paul Greengrass, che vede Tom nei panni del comandante di una nave mercantile statunitense assaltata da un gruppo di Pirati Somali; nello stesso anno, interpreta con aria sorniona e impeccabile sorriso imprenditoriale niente di meno che Walt Disney in persona in Saving Mr Banks, toccante dietro le quinte della lavorazione di Mary Poppins diretto da John Lee Hancock.

Nel 2015, una nuova performance gli fa guadagnare un'altra nomination come miglior attore: diretto dal migliore Steven Spielberg, Il ponte delle spievede Hanks interpretare l'avvocato  James Donovan, rispettabile cittadino americano e ottimo avvocato, chiamato suo malgrado piena Guerra Fredda a difendere una spia russa e a diventare in seguito il mediatore di un delicato scambio di ostaggi a Berlino est; un finissimo film che trova gran parte del suo fascino proprio nella dialettica e nello sguardo del personaggio di Tom, padre di famiglia devoto e difensore di uno stato di diritto sacro e inviolabile che non dovrebbe mai accettare di sottomettersi alla caccia alle streghe, impegnato in un affascinante confronto attoriale con l'eccellente Premio Oscar Mark Rylance.

Inferno si prepara in questi giorni ad invadere le sale, ma l'attesa è tutta per Sully di Clint Eastwood, in uscita a dicembre nelle sale italiane, storia vera del pilota di linea che nel 2009 riuscì a fare un atterraggio d'emergenza planando sul fiume Hudson portando in salvo tutti i passeggeri: un altro piccolo grande uomo messo alla prova da una situazione straordinaria e pronto ad affrontarla senza tirarsi indietro, come facciamo tutti nella vita di tutti i giorni dinanzi a quegli ostacoli grandi e piccoli che ci mettono alla prova e che proviamo a risolvere, aggrappandoci alle cose che rendono preziosa la nostra quotidianità e che all'occorrenza sanno darci la forza di essere invincibili.


Leggi su cinefilos.itTom Hanks, storia di un brav'uomo alla corte di Hollywood

Cafè Society

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"Dreams are … dreams."

"Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita". Prospero chiude La Tempesta di William Shakespeare lasciandoci una malinconica verità che nessun essere umano sarebbe in grado di smentire: la mortalità è un sogno ad occhi aperti che stordisce e incanta, la promessa di una rosa infinita di alternative, possibilità ed incontri in cui la gioventù si tuffa a capofitto ansiosa di assaporare l'ebbrezza di un quotidiano incerto e di un futuro ancora tutto da scoprire, la stessa che ti lascia credere di poter avere il mondo nel palmo di una mano e che le limitazioni e le responsabilità siano pagliuzze fastidiose destinate a ostacolare la visuale di qualcun altro. 
A rallentare la giostra arrivano le scelte e il loro urgente e assoluto bisogno di certezze, il definirsi del quadro che costringe a lasciare indietro ciò che non può entrare nella cornice senza compromettere per sempre l'equilibrio della composizione, la lista di tutte le opportunità abbandonate o perdute che si trasforma prima in rimorso e in fine in nostalgia, per tenere a bada il tormento dei fantasmi delle vite che abbiamo dovuto scegliere di non vivere.

Che dilemma, quest'umanità condannata per sua stessa natura a non poter godere della felicità completa e a dover portare sempre con sé il fardello delle proprie decisioni, di quelli che a farci un film con la giusta quantità di gravitas e drama ne verrebbe fuori un prodotto da Oscar multipli e giù di lacrimoni: coerente coi lietmotiv che attraversano alcuni dei suoi lavori più riusciti (e più amati da chi scrive) Woody Allen preferisce però infondere nel suo ultimo Cafè Society tutta l'amara ironia, la nevrosi e la delicata tenerezza con cui i suoi personaggi, novecenteschi fino al midollo, finiscono spesso per accompagnarsi: protagonisti della storia di un amore e di un mondo che è già un ricordo nelle sfumature ocra della fotografia di Vittorio Storaro, Bobby e Vonnie si incontrano e si innamorano nel posto sbagliato al momento sbagliato e finiscono invischiati nella più classica rete di complicazioni ed equivoci che governa la Commedia della vita, diretta da quel sadico autore anonimo che si diverte a giocare coi nostri sentimenti e a burlarsi delle nostre speranze con un pessimo tempismo; tocca rimboccarsi le maniche ed essere forti, provarci e riprovarci confidando che un giorno finalmente ci azzeccheremo, chiudere gli occhi per un attimo e ritrovare i colori caldi di un semplice ristorante messicano o di un piatto di spaghetti con le polpette, le cartoline di un passato rimasto incompiuto che con mite rassegnazione torniamo a osservare per riempire i vuoti di una vita che non potrà mai bastare a sé stessa.

C'è il sogno d'amore, quello che resta gelosamente nascosto nello sguardo assente di chi chiede di restare per un attimo immerso nei suoi pensieri anche in una notte di Capodanno caotica e festosa, ma anche molto altro: il sogno di un Microcosmo fatto di feste alla moda, abiti da sera di piume e lustrini e completi inamidati, la vecchia Hollywood degli anni 30' tutta jazz ed entusiasmi che ignora la realtà e nomina il nome di Hitler con consapevole noncuranza.
Il mito dell'Epoca d'Oro già sbugiardato da Midnight In Paris torna prepotente a darci una lezione, eleggendo Bobby a novello Fitzgerald  per raccomandarci di non cadere nell'assolutismo romantico di Jay Gatsby o di Dick Diver; lo stesso sogno che ci spinge ad andare in sala per uscire dalla nostra realtà e rivedere con dolcezza pezzi di ciò che eravamo o che vorremmo essere, sentirci meno soli e chiedere perdono.

Fra battute graffianti sulla religione e una serie di maschere grottesche a fare da contorno si sorride abbastanza mentre si consuma l'altalena che porta Jessie Eisenberg, perfetto archetipo dell'uomo alleniano, a oscillare fra il sorriso smorfiosetto di Kristen Stewart e la bellezza solare di Blake Lively(difficile immaginare che un uomo possa davvero avere qualche dubbio nella scelta), con un affascinante Steve Carell a metterci fastidiosamente lo zampino.

Si attende un colpo di scena che non arriva, ma tutti continuano a recitare la loro parte e ad andare avanti con un malinconico sorriso sulle labbra perché non c'è nient'altro che si possa fare; quando l'alba di un nuovo anno arriva senza redenzione e ad avere la meglio è l'amarezza Alleniana più familiare e più vera, a salvarci è un passato costellato d'istanti preziosi, per quanto mai consumati o rimasti sospesi da qualche parte sotto le palpebre: brevi flash color ocra di una vita spesa a sognare quell'amore che crea una tregua dalla morte.


The Crown

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"Uneasy lies the head that wears a crown." (Henry IV, part II, William Shakespeare) 

"La corona deve vincere, deve sempre vincere": non importa quanti sacrifici vengano chiesti alle ambizioni e ai desideri del singolo, non importa quali capacità, inclinazioni o debolezze vadano a definire il carattere di chi sarà suo malgrado chiamato a raccogliere l'eredità del potere; la corona è un'istituzione radicata con secoli di storia che va preservata a qualunque costo e con qualsiasi mezzo, il prestigioso cerchio dorato dove ogni gemma incastonata deve brillare solo ed esclusivamente per servire ad uno scopo più alto.

Mentre la bufera della Brexit ci porta a interrogarci con insistenza sull'indole di un popolo che ha sempre difeso la propria indipendenza e tradizioni con orgoglio e una punta di egoismo non indifferente, Netflix si ritrova fortuitamente a cavalcare l'onda di una britannicità misteriosa e ancora tutta da scoprire con The Crown, serie tv in 10 episodi che racconta i primi anni di Regno di sua Maestà la Regina Elisabetta II: il filtro implacabile e mai indulgente verso i protagonisti è quello della penna di Peter Morgan, già sceneggiatore di The Queen di Stephen Frears e dello spettacolo teatrale The Audience, entrambi dedicati alla Sovrana e interpretati da Helen Mirren.


Con la sua gioventù e inesperienza, per non parlare poi della quasi totale mancanza di un'istruzione adeguata ritenuta clamorosamente inutile e non necessaria per una donna persino se futura regnante, la Elisabetta di Claire Foy( alla sua seconda prova come monarca dopo l'Anna Bolena di Wolf Hall) è la perfetta sintesi di cosa i difficili anni del Dopoguerra richiedessero alla monarchia perché potesse sopravvivere quietamente e senza scossoni all'incedere inesorabile dei tempi: una figura priva di eccellenza e dal carattere indecifrabile(o come appuntato dalla sorella Margaret, senza carattere alcuno) capace di assecondare senza troppi sussulti le necessità della famiglia e del Regno vincendo l'insistenza di parenti, amici e persino di sè stessa quando la preferenza individuale diventi una minaccia per il mantenimento dell'ordine costituito; non insensibile, non priva di sentimenti, ma cosciente del bisogno istituzionale di annullarsi e scomparire, senza mai puntare i piedi ne alzare la voce, stando zitta quando l'occasione lo richieda.

Un giuramento che non concede mezzi termini, applicato rigidamente a Elizabeth Mountbatten Windsor quanto agli altri membri di una Famiglia Reale a suo modo disfunzionale e fradicia di rancori e rimpianti: si inizia con la vecchia guardia e col povero Giorgio VI, interpretato da un commovente Jared Harris, simbolo di come l'incombenza del ruolo possa distruggere la salute e l'anima di chi non abbia la tempra necessaria a controllare la propria umana fragilità, per poi proseguire col fratello David Edward, il sovrano mancato disprezzato da tutti, colpevole di aver voluto abdicare perchè incapace di rinunciare all'amore per Wallis Simpson e quindi anch'egli indegno di sostenere a lungo l'onore e il fardello della Corona. 

Il prezzo imposto alla nuova generazione è altrettanto alto: per quanto apparentemente guidato da un sentimento sincero il Principe Consorte Filippo (un antipatico ma perfetto Matt Smith) finisce per sentirsi castrato e umiliato dall'ingombrante incarico della moglie, mentre l'essere sorella della Regina non salverà la Principessa Margaret, fresca, passionale e incredibilmente somigliante nei tratti di Vanessa Kirby, dal dover rinunciare all'amore della sua vita per proteggere i Windsor dalla minaccia di uno scandalo troppo grande per poter essere contenuto; esterno ai Reali ma non meno importante resta il Winston Churchill di John Lithgow (americano e impeccabile, con buona pace dei cari inglesi), ormai alla fine della carriera ma non ancora pronto ad arrendersi al futuro e a fissare nello specchio il volto di un uomo vecchio e stanco, gigante della politica e salvatore della Patria ma anche marito e padre putativo a modo suo tenero e affettuoso, nei confronti della regina stessa e di tutti i giovani che si avvicinano alla sua figura con culto e reverenza.

Grazie a una confezione prestigiosa per la quale non si è chiaramente badato a spese (fra i produttori spicca anche il nome illustre di Stephen Daldry), a prove attoriali inattaccabili e una sceneggiatura di ferro, per quanto priva probabilmente con intenzione della giusta verve richiesta alla chiusura di un finale di stagione, The Crown è una gemma preziosa che brilla ben oltre i limiti imposti dalla Corona di sua Maestà: il ritratto di un popolo che non dimentica mai la propria Storia, testardo e risoluto nel volere ascoltare null'altro che la propria voce e difendere il proprio Mito, l'alito di vento gelido che soffia insistente sotto la pioggia e abitua gli animi a indurirsi e a non abbandonarsi mai, per quanto il sole provi timidamente ad affacciarsi.   
  
Leggi su cinefilos serie tv: The Crown recensione della serie Netflix con Claire Foy 

Victoria

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Riempire il vuoto lasciato da Downton Abbey, la serie di Julian Fellowes che ha chiuso i battenti l'anno scorso con un finale gioioso privandoci dell'affetto della famiglia Crawley e di tutti i suoi domestici era un'impresa difficile per il pubblico tanto quanto per il canale britannico ITV, rimasto orfano di uno dei prodotti di maggior successo della sua storia.
Per recuperare una situazione d'emergenza straordinaria occorreva allora l'aiuto di una personalità straordinaria, capace di sposare la propria fragilità e umanità ai canoni del period drama per darci l'opportunità di sognare ad occhi aperti la domenica sera fra balli di corte, intrighi e crinoline: ecco allora arrivare a prendere possesso del suo trono Victoria, la regina che nell'arco di uno dei regni più longevi vantati dalla monarchia britannica (il suo record è stato recentemente battuto dall'attuale Elisabetta II) ha battezzato un'intera Epoca e accompagnato a piccoli passi la transizione del Regno Unito verso la Modernità.

Un periodo ricco di ambivalenze e contraddizioni, che all'autrice del Serial Daisy Goodwyn interessano però relativamente e solo in funzione dei cambiamenti esercitati sulle personalità dei suoi personaggi e più che mai sulla Regina stessa: al centro del racconto regna incontrata la giovanissima Victoria di Hannover, appena diciottenne quando lo Zio William IV muore lasciandole la corona dopo un Regno poco idilliaco e rapidamente archiviato.


Per Victoria, la promessa della corona è quella di un'emancipazione bramata per anni e negatale dall'opprimente presenza della Madre e del suo segretario Sir John Conroy, impegnati a tenerla ben nascosta entro i cancelli di Kensington Palace di assicurarsi una salda posizione di potere una volta che la ragazza fosse salita al trono.
Temprata da anni di solitudine vissuti col solo conforto del suo fedele cagnolino Dash, Victoria disattende le aspettative dei suoi carcerieri e prende il mano il proprio destino, commettendo errori da perdonare con difficoltà anche tenendo conto della sua giovane età ma imparando nel contempo a crescere e maturare, trovando conforto nell'amicizia con il primo Ministro Liberale Lord Melbourne ma soprattutto nell'unione con l'amato Principe Albert, fortemente voluta dalla famiglia eppure straordinariamente felice; dietro le quinte, la servitù di palazzo si districa fra screzi quotidiani, problemi di gerarchia e segreti che mai dovranno essere rivelati, attendendo al meglio delle proprie possibilità la sua Regina.

Superata la delusione per non aver trovato un maggiore approfondimento della situazione politica e sociale dell'Epoca è davvero difficile non innamorarsi di questa serie e del suo fresco romanticismo: la Victoria di Jenna Coleman (per l'occasione armata di inquietanti lenti a contatto azzurre degne di un White Walker di Game of Thrones) è un'adolescente che non ha mai visto ne conosciuto nulla, ancora prigioniera di un'infanzia infelice trascorsa ad agognare una libertà ironicamente incarnata da un Ruolo istituzionale che mai più le avrebbe restituito il controllo e la padronanza di sè stessa, del suo corpo e dei suoi affetti; dietro l'ombra di un passato difficile da scalfire si nasconde però una ragazza vivace, ansiosa di assaporare l'amore e la vita, allegra e desiderosa di apprendere e migliorarsi e decisa a non lasciarsi manipolare da un mondo di uomini.

Il legame col Principe Albert, dolce e affascinante nella prova di Tom Hughes, è reso splendidamente sul piano personale quanto su quello istituzionale: una storia d'amore autentica che chiede alla regina di fidarsi di qualcuno a tal punto da donargli il suo cuore, abbracciando il confronto e lo scontro con l'unico uomo disposto a dirle la verità e a non temere di mostrarle il mondo per ciò che è: alcune scelte di Victoria, dal matrimonio alla gravidanza fino al momento in cui arriva a condividere alcune funzioni col marito potrebbero sembrare poco lungimiranti, ma in nome di un amore che chiede inevitabilmente anche compromesso e comprensione ciò che appare come una sconfitta si rivela piuttosto il frutto di un processo di maturazione, come regina e come donna, che non risulta mai forzato o fuori contesto.A impedire alla serie di raggiungere un punteggio pieno sono piuttosto alcune stonature: troppo sbilanciata ed eccessiva la cotta per il Lord Melbourne di Rufus Sewell, al punto tale da portare molti a disdegnare l'arrivo di Albert come possibile partito; slegate dalle vicende reali e poco curate le trame della servitù, ben lontane dall'equilibrio upstairs/downstairs che aveva guidato Downton Abbey.

Con la giusta leggerezza ma con altrettanti spunti interessanti (la preoccupazione di Victoria e di tutto il Regno per una sua possibile morte di parto è più che ragionevole e palpabile) e scene già scolpite nella memoria (dal primo Valzer al lancio della Ferrovia, fino al primo Attentato alla vita della Regina)Victoria gioca bene le sue carte e allieta il suo pubblico di una serenità nuova e gradevolissima: a volte è tutto ciò che serve.

Note-
Nella Guerra fra monarchie che inevitabilmente porta differenti sovrane a scontrarsi, i produttori della serie Netflix The Crown hanno pensato bene di sottolineare quanto il loro prodotto fosse qualitativamente superiore disprezzando senza troppi giri di parole la serie di ITV: al di là del fatto che giocare con un budget cinematografico e una sceneggiatura di Peter Morgan significa vincere facile, paragonare due prodotti diametralmente opposti per capitali, interessi e soprattutto obiettivi è quanto di più sbagliato si possa fare; che The Crown sia splendido è innegabile, ma il cuore resta a Victoria.



Nocturnal Animals

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"When you love someone, you have to be careful with it. You might never get it again."

Raffinatezza, eleganza, ordine formale e compositivo, passione viscerale: i fattori che determinano l'equazione del cinema di Tom Ford, contraddittoria all'apparenza eppure confezionata alla perfezione come un costoso completo firmato, a distanza di 7 sette anni dallo splendido a Single Man tornano a decretare il successo del regista (e stilista, fattore di importanza apicale) con Animali Notturni (Nocturnal Animals), tratto dal romanzo di Austin Wright Tony e Susan e vincitore del Gran Premio della Giuria all'ultimo Festival di Venezia.

Mai fine a sè stessa, la sua estetica impeccabile è messa ancora una volta al servizio del racconto di una disperazione che attecchisce nel profondo e non conosce tregua ne assoluzione, la condanna alla solitudine e al grigiore dell'esistenza per coloro che non hanno avuto il coraggio di fuggire dalla grata della loro prigione dorata per essere davvero sè stessi: nella gabbia di vetro della sua vita fatta di opere d'arte vacue e flaccide che non nascondono nulla sotto la patina intellettuale, la gallerista Susan non può che empatizzare all'istante col desolato percorso di Tony, protagonista del romanzo scritto dal suo ex marito Edward, un mite professore universitario prigioniero di un inferno senza fine delle desolate pianure del Texas.

Violento, dissacrante e crudele, il romanzo di Edward è il mostro generato da una penna che sa bene come infestare di incubi le notti di Susan, già da tempo insonni e intrise di solitudine, infierendo sul suo volto di porcellana con occhi gonfi di stanchezza e sferrandole un pugno allo stomaco che rimbalza all'istante sulla nostra stessa coscienza: il racconto dell'elaborazione del lutto per la violenta distruzione di un amore passa per la violenza di un racconto nel racconto che tutto uccide, macella e massacra, metacinema e metaletteratura dove non c'è speranza o risoluzione ma solo la ferocia di un'anima fatta a pezzi dal dolore: una vendetta servita fredda nei confronti di un'assassina dei sentimenti e delle speranze, ma anche il mea culpa di un uomo troppo vigliacco per trovare la forza di difendere ciò che amava di più al mondo e che sceglie semplicemente di arrendersi e morire, affidando la memoria dei suoi rimpianti alla parola scritta che tutto può far sopravvivere.

Sotto fredde e geometriche forme, con la camera che lascia i protagonisti soli e minuscoli in ambienti vastissimi o si stringe sui loro occhi rossi, ad interessare davvero Tom Ford sono le emozioni soffocate quando la romantica neve si trasforma in una lastra di ghiaccio, l'asfissia che la vita ci impone per sfuggire il rischio e l'imprevedibilità e che porta la Susan di Amy Adams, fragile e spenta regina del castello dei ghiacci ancora viva nel fuoco dei suoi capelli rossi, a diventare ambasciatrice di un amore profanato, con il Tony di Jake Gyllenhaal eletto a suo inconsapevole carnefice: perché nell'insoddisfazione inseguiamo sempre lo spettro di un' attraente infelicità, per essere predatori, animali notturni che tutto vorrebbero divorare e che alla fine nulla ottengono, se non restare svegli nella notte in preda al tormento.

Note:
1)Poche parole su Michael Shannon e Aaron Johnson: ruvido e sincero il primo, villain(?)disgustoso e perfetto il secondo.
2) Amy Adams è quel tipo di donna bella bellissima che riesce ad essere meravigliosa anche con un paio di occhialoni da lettura.


Vikings 4x11: The Outsider

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Chi vuole essere re? Chi fra i numerosi figli maschi di Ragnar Lothbrook avrà il coraggio di raccogliere il fardello della corona? Vikings ricomincia lì dove l'avevamo lasciato, con un secondo ciclo di episodi che dovrebbe secondo le più favorevoli previsioni dare una sterzata alla storia dei tre regni di Danimarca, Wessex e Francia, sofferente di diversi punti di stallo nel primo arco visto in primavera. 

La tensione che regna a Kattegat non esplode almeno per il momento in nessuna palese sfida all'autorità di Ragnar: Ubbe, il maggiore dei figli di Aslaug e il più somigliante al padre (un applauso ai direttori del casting) sembra all'inizio prendere la spada del comando, ma l'affetto nei confronti del padre ha il sopravvento. Dei numerosi figli di Ragnar ad attirare maggiormente la nostra attenzione e a promettere grandi cose è senza dubbio Ivan il Senz'ossa, spirito ribelle e profondamente pagano, cresciuto per essere un perfetto vichingo e affetto da una condizione che gli impedisce (almeno per il momento, considerando ciò che narrano storia e leggenda) di essere un vero guerriero e un vero uomo, ma non di covare una grande sete di sangue, gloria e vendetta.

Fuori dalla contesa ma non meno presente è Bjorn, deciso a partire con le navi di Floki per esplorare le terre del Mediterraneo, e Floki stesso, apparentemente perdonato da Ragnar per i suoi torti passati e di nuovo nella lista dei suoi favoriti: se questa sarà l'ultima parola sugli scontri fra il Re e il suo vecchio amico di un tempo ce lo diranno solo i prossimi episodi.

Nella sua contea, Lagertha continua a regnare col supporto e l'amicizia (e forse qualcosa di più) di una ragazza di nome Astrid, giovane guerriera dai capelli corti di cui ancora sappiamo troppo poco ma che di certo non ha mancato di dimostrare interesse per l'ex marito della donna al cui servizio si è votata. Uomini a parte, sembra che non esista invecchiamento per le donne in vikings: Lagertha e Aslaug appaiono sempre giovani, belle e fresche, così come Helga, apparentemente tornata al fianco di Floki dopo avergli voltato le spalle a Parigi. 

La consapevolezza del fallimento di Ragnar è chiara a tutti; dopo la sconfitta francese, la notizia della perdita della colonia britannica sembra averlo distrutto definitivamente portandolo a considerare addirittura di porre fine ai suoi giorni: Odino non ha però ancora desiderio di chiamarlo nel Walhalla e questo primo episodio per quanto di assestamento porta con sè la promessa di un'altra avventura che vale la pena di raccontare.

Leggi su cinefilos/serietv: Vikings 4×11 recensione dell’episodio con Travis Fimmel

Marguerite et Julien

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"Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense."
(Inferno, Canto Quinto)

Storie di un amore efferato che si sporca le mani di una passione incontenibile, storie di un amore che fugge nel buio della notte osteggiato dalla famiglia e dal fato, contro perfidi rivali e un mondo in tumulto incapace di capire e di perdonare, storie di un amore votato alla morte sin dalla sua nascita che pretende tutto e non risparmia niente mischiando la realtà alla leggenda, la fiaba al mito, passato e presente: se ogni generazione ha i suoi Romeo e Giulietta e Paolo e Francesca, la regista francese Valerie Donzelli (La Guerra è dichiarata) aggiunge alla rosa degli amanti impossibili tanto favoriti da cinema e letteratura anche Marguerite e Julien, andati incontro alla peggiore delle morti nel lontano 1603 e tristemente dimenticati da poeti e menestrelli.

Che questa coppia di giovani sfortunati non ci rammenti nulla è più che normale: figli del Signore di Tourlaville, Marguerite e Julien De Ravalet erano fratello e sorella, uniti da un amore incestuoso che agli occhi dei loro contemporanei era la macchia di un peccato senza' assoluzione che li condusse dritti alla decapitazione e una quieta sepoltura che non osa pronunciarsi sulla loro vergogna; nel tentativo di restituire al racconto lo smalto della Leggenda, la Donzelli sceglie di sradicare la vicenda dalla sua naturale collocazione storica per spostarla in un tempo senza tempo, centrifugato di etichette e modus operandi seicenteschi con mode e tecnologie della nostra contemporaneità; così, attraverso la voce di un gruppo di ragazzine che inganna la paura per i bombardamenti di quella che sembrerebbe essere la Seconda Guerra Mondiale(?), la narrazione prende vita presentandoci i due protagonisti sin da bambini uniti da un affezione platonica e pur già ritenuta eccessiva, destinata a trasformarsi in passione sotto gli occhi sgomenti di familiari e servitù.

Il giocattolo postmoderno adoperato tante volte e in modo funzionale da produzioni americane a più zeri mette a dura prova le sorti dell'operazione, alla ricerca di una nota rock che finisce impicciata in un caos di macchine e elicotteri che mal s'adatta alle altre due anime del racconto: l'involucro fiabesco che elegge Marguerite e Julien a principe e principessa del castello e di un mondo non più medievale ma egualmente romantico e cortese, pronto a vivere con la dolcezza di una favola nelle parole entusiaste delle giovani cantastorie, ma anche il fuoco carnale di due corpi che non possono fare a meno di fondersi e diventare un tutt'uno, sotto gli occhi di un'estetica grezza che ricorda parecchio il dimenticato Wuthering Heights di Andrea Arnold, mescolandosi alla terra, al fango e al sangue in un matrimonio che dovrebbe essere innaturale e che invece la natura stessa appare voler benedire.

In mezzo alla contaminatio che il film persegue con determinazione e che distrae e confonde a più riprese a contare davvero sono però Marguerite e Julien, bellissimi e innamorati nelle interpretazioni di Anaïs Demoustier e Jérémie Elkaïm al punto da farci dimenticare in continuazione quale fosse la vera ragione della loro disgrazia: un tragico poema che non sarebbe stato meno senza tempo se lasciato nell'Epoca che l'aveva motivato e generato, ma vivo e sincero a sufficienza per farci sentire dovunque il battito forte del suo cuore.

Note:
La sceneggiatura originale del film riscoperta dalla Donzelli fu scritta per François Truffaut: rimane il rimpianto di non sapere cosa avrebbe potuto fare il regista di Jules e Jim e Le Due Inglesi con un tale soggetto, palesemente nelle sue corde. 




Vikings 4x12: The Vision

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Dimostrare il proprio valore dinanzi agli dei, dinanzi alla famiglia, dinanzi al proprio popolo, perchè nella società vichinga non c'è spazio per la debolezza e il fallimento: il nuovo episodio di Vikings the vision non lascia altra scelta ai personaggi che di mettersi in gioco e tentare di nuovo la propria fortuna, sfidando sè stessi e i propri limiti, per non soccombere. 

Il primo ad essere messo alla prova è nuovamente Re Ragnar, che ormai ridotto all'ombra di sè stesso vaga per Kattegat mendicando uomini che lo aiutino a tornare in Inghilterra per vendicarsi della perdita della Colonia; nessuno sembra più intenzionato ad ascoltarlo, nessuno ha dimenticato il dispendio inutile di vite umane che le imprese inglesi e parigine hanno causato, nessuno sembra disposto a ridargli fiducia e a riscattare quella luce di conquista e conoscenza che un tempo animava i suoi occhi: è largamente sottinteso che il personaggio di Travis Fimmel sia ormai in declino e che il futuro appartenga ai numerosi figli maschi che sin da ora non si risparmiano in conflitti e ambizione, ma Re Ragnar non ha intenzione di arrendersi a sè stesso e riesce a organizzare una nuova spedizione promettendo le ricchezze e il riscatto da tempo perduti. 


A cogliere l'occasione per farsi valere è Ivar, perennemente disprezzato dai fratelli e dalla società come un diverso e un debole, menomato nel fisico ma non nel coraggio o nella determinazione: lo sguardo folle del Senz' Ossa promette la nascita di un guerriero assetato di sangue e indomabile, una perfetta storia di riscatto resa ancora più interessante dal fascino negativo del personaggio segnato dai propri limiti e da un rapporto malato con la madre Aslaug; proprio la donna tenterà inutilmente in ogni modo di proteggere il figlio da sè stesso e dai propri desideri,forse inconsapevole di aver contribuito col suo morboso attaccamento a soffocare ancora di più il ragazzo e a scatenare la sua rabbia come vichingo ma anche come semplice adolescente. 

Il futuro della regina sembra inoltre minacciato dalla stessa Lagertha, apparentemente desiderosa di vendetta per aver perso il marito e il trono dopo anni di quieto vivere: proprio perchè tanto distante dal tempo dell'offesa questa svolta non sembra particolarmente credibile, ma qualunque cosa riguardi il personaggio di Katheryn Winnick è sempre ben accetta. 

Mentre la tempesta si scatena su Ivar e Ragnar, la grande attesa adesso è tutta per il fronte inglese, dove avremo il piacere di incontrare l'altro figlio di Ragnar Magnus e il suo fratellastro Alfred, futuro Alfredo il Grande: fratello contro fratello è sempre un'ottimo spunto narrativo. 

Matt Smith: breve storia di un signore del tempo

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Alto, magro, zigomi taglienti e occhi sottili, un volto che sembra mischiare presunzione, riservatezza, ingenuità e tenerezza tutte britanniche: in questi giorni su Netflix nel ruolo di un giovane Principe Filippo nello splendido The Crown firmato da Peter Morgan, Matt Smith è uno di quegli attori inglesi di pregio riusciti nell'impresa di trovare la notorietà grazie a un ruolo di primo piano in una serie BBC, trampolino di lancio per spiccare il volo e fare conoscere la promessa del proprio talento senza mai timore di cimentarsi in nuovi e spigolosi progetti.

Eppure, a differenza di altri colleghi e conterranei il nostro non aveva alcuna ambizione artistica negli anni della scuola: nato Northampton il 28 ottobre 1982, Matthew Robert "Matt" Smith aveva tutta l'intenzione di diventare un calciatore professionista, ma un infortunio alla schiena gli impedì di realizzare il suo sogno: avvicinatosi alla recitazione dopo un'iniziale ritrosia ( sembra che ritenesse la professione dell'attore "non socialmente accettabile")si iscrive alla National Youth Theatre e partecipa alle prime rappresentazioni teatrali, proseguendo nel frattempo gli studi universitari presso la University of East Anglia.


Ad aprirgli la strada verso il successo il ruolo che tutti gli attori inglesi amano e temono allo stesso tempo: il team di Steven Moffat sceglie Matt per interpretare l'undicesimo Dottore in Doctor Who, la serie di fantascienza più longeva della storia della tv britannica con ben 50 anni di storia: a soli 26 anni è il Signore del Tempo più giovane ad essere approdato sul piccolo schermo, ma nonostante la diffidenza iniziale dei fan dell'amatissimo Dottore uscente David Tennant Matt riesce a conquistarsi l'affetto del pubblico interpretando un personaggio vivace e irriverente ma allo stesso tempo dotato della saggezza e della tristezza che tutti i suoi lunghi anni di viaggio e solitudine gli hanno lasciato: la chimica con Karen Gillan e Arthur Darvill, interpreti dei suoi compagni di viaggio Amy e Rory arricchisce la mitologia della serie di nuovi preziosi tasselli e consacra l'amore dei fan per l'undicesima incarnazione del Dottore; curiosamente, Smith aveva sostenuto anche il provino per interpretare il Dottor John Watson nella grande hit Sherlock, ruolo andato poi a Martin Freeman perchè a detta degli autori l'attore sembrava troppo simile nel fisico e nello spirito proprio allo Sherlock Holmes di Benedict Cumberbatch, già provinato e sin dall'inizio unica scelta per la parte del Detective.

Nel frattempo, non manca di mettersi alla prova sfidando anche la pazienza dei creatori dello show: Christopher and His Kind, film tv dedicato agli anni giovanili dell'autore di "A Single Man" Christopher Isherwood lo vede comparire in diverse passionali scene d'amore omosessuale, un azzardo notevole per un attore scelto per interpretare un personaggio molto amato dai bambini e sottoposto a un'intensa pressione mediatica; lo stesso spirito lo porterà di lì a poco a teatro per interpretare Patrick Bateman nel musical di American Psycho.


Dopo l'arrivo di Jenna Coleman, chiamata a sostituire degnamente i due attori uscenti come compagna di viaggio, Matt avverte il bisogno di lasciare la serie che l'aveva lanciato per tentare nuovi progetti: dopo la commovente uscita di scena che ha segnato l'ingresso dell'attuale Signore del Tempo Peter Capaldi, il primo ruolo col quale tenta di farsi notare a Hollywood è quello di Bully in Lost River, esordio alla regia di Ryan Gosling che però non ottiene il successo sperato; seguono Terminator: Genisys, con la Khaleesi di Game of ThronesEmilia Clarke e Orgoglio e Pregiudizio e Zombie, adattamento irriverente riscrittura del romanzo di Jane Austen firmata da Seth Grahame Smith; sul set, anche Lily James (Downton Abbey, Guerra e Pace), con la quale inizia una relazione.


Se il cinema non riesce a dargli le soddisfazioni promesse, il ritorno alla serialità televisiva avviene in grande spolvero: il Duca di Edimburgo Filippo di Mountbatten del gioiello di Netflix The Crownè un compagno innamorato ma insofferente, incastrato in un angolo istituzionale e personale castrante che lo porta a scalpitare e a rendersi ostile, in cerca di distrazioni e divertimenti; con una seconda stagione già stata confermata, la speranza è che la longevità della serie permetta a Matt di interpretare il ruolo della vita ancora a lungo.



Vikings 4x13: two journeys

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Con le nuove generazioni che avanzano pensavamo che il tempo delle gesta di Ragnar, Rollo e Lagertha stesse ormai giungendo al termine, ma sembra che la seconda metà della quarta stagione di Vikings non abbia ancora intenzione di mettere da parte i suoi protagonisti più affascinanti, cercando nuovi modi per tenerli al centro dell'azione a dispetto dei tanti anni di tradimenti, passioni e battaglie trascorsi dalla prima grande visione di Ragnar Lothbrok.

Impegnato in un'incursione in Inghilterra nel tentativo di vendicarsi, il Re si scontra con la violenza di un mare in tempesta che distrugge le sue navi e decima i suoi uomini, ignaro del vero motivo per cui Odino l'ha spinto nuovamente a mettersi in gioco e a rischiare tutto sulle coste inglesi: essere finalmente un vero padre per Ivar, insegnare al figlio a non lasciarsi sopraffare dalla propria disabilità e piuttosto ad accettarla con coraggio, facendo della propria debolezza la sua forza; il suo legame fra i due è una delle cose più belle del nuovo arco dello show e la speranza è che il personaggio di Ragnar distrutto dal fallimento delle sue imprese passate possa così trovare nuova linfa.

La parentesi inglese è anche un occasione per rivedere Re Ecbert, Judith e Aethelwulf: la storyline del Wessex oltremodo deludente nella prima parte di stagione potrebbe rivelare piacevoli sorprese grazie all'ingresso in scena di Alfred e Magnus, che attendiamo con impazienza di conoscere. 

Interessanti rivolgimenti anche in Terra di Franchia, dove Rollo ormai Duca di Normandia governa da anni le sue terre al fianco della moglie Gisla e dei numerosi figli: la tranquillità raggiunta non è bastata a placare il rumore assordante del martello di Thor e l'arrivo di Bjorn, deciso a raggiungere le terre del mediterraneo dà all'uomo l'opportunità di partire per ritrovare sè stesso e comprendere davvero dove stia la sua lealtà; uno spunto narrativo che ci consentirà forse di rivedere Clive Standen più di quanto avremmo immaginato, ma che allo stesso tempo lascia perplessi considerando quanto Rollo aveva dovuto affrontare per realizzarsi in un luogo e una cultura dove l'ombra lunga di Ragnar non potesse offuscarlo.

Debole e poco convincente sembra anche il proposito di Lagertha, improvvisamente accecata dal desiderio di vendetta contro Aslaug dopo anni di apparente tranquillità al punto tale di rivolgere asce e scudi contro quella stessa gente di cui lei sostiene essere la vera regina: la vendetta è un piatto che va servito freddo, ma forse con tali tempistiche e motivazioni lo è un po' troppo, in un episodio di assestamento che riporta vecchi giocatori sulla scacchiera e scombina nuovamente gli equilibri esistenti senza badare troppo ai lunghi anni trascorsi, invisibili sui volti delle protagoniste quanto in alcune delle loro storie. 

Vikings 4x14: in the uncertain hour before the morning

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Intrighi di corte, passioni e vendette sono sempre stati parte integrante del plot di Vikings sin dalla prima stagione, ma il moltiplicarsi dei differenti fronti seguiti dalla serie e la scelta di raddoppiare il numero degli episodi scelti hanno inevitabilmente favorito la tendenza alla dispersione perdendo spesso di vista ciò che rendeva davvero bella la serie di Michael Hirst: la scoperta dello spirito del popolo vichingo in tutte le sue tradizioni e contraddizioni, ritrovata finalmente dopo tanto tempo in questo episodio dal titolo "in the uncertain hour before the morning".


Ad aiutarci in tal senso arriva la parentesi, bellissima, che vede Ragnar consegnarsi a un ormai anziano Re Ecbert insieme al figlio Ivar e finire dietro le sbarre di una prigione che ormai lo attendeva da troppo tempo: da sempre simili per carattere, curiosità e ambizioni, i due uomini dialogano e si confrontano come se gli anni non fossero passati, consapevoli di come gli interessi dei rispettivi popoli li abbiano divisi ma allo stesso tempo di quanto le loro anime siano effettivamente affini. Come se il tempo non fosse mai passato, Ragnar e Ecbert iniziano uno splendido confronto che li porta a interrogarsi sull'esistenza del divino e sulla possibilità che entrambi abbiano seguito falsi ideali, confortati solo dal ricordo di quell'Athelstan per il cui amore i due non avevano mai smesso di contendere e che tanto importante era per l'equilibrio della serie, filtro necessario fra l'occhio ignorante e curioso del pubblico e ciò che ci si prospettava sul piccolo schermo; ha un senso che finalmente il cerchio si chiuda con la comparsa di Alfred, futuro Alfredo il grande e nella finzione figlio di Athelstan, destinato per ironia della sorte ad essere un acerrimo avversario del popolo di Ragnar.

Un altro ragazzino molto atteso fa finalmente il suo debutto, ma la risoluzione della sua storyline non è delle migliori: Magnus, presunto figlio di Ragnar, altro non è che il frutto delle menzogne raccontate da una madre ambiziosa e e desiderosa di conquistare il potere, uccisa dalle sue stesse cospirazioni e con ogni probabilità indiretta firmataria della condanna a morte di quell'unico figlio che aveva cercato di utilizzare nel miglior modo possibile per i suoi scopi.

Mentre Bjorn è ancora lontano, la vendetta di Lagertha si consuma a Kattegat nel peggior modo possibile: che dopo più di 20 anni la nostra abbia deciso di muovere guerra a Aslaug era già una forzatura, ma il modo in cui decide di chiudere i giochi sembra davvero fuori dal suo personaggio, al punto da rendere effettivamente la figura di Aslaug vincente tanto nei fatti quanto nelle parole: per la nostra guerriera preferita avremmo voluto qualcosa di meglio, peccato. 

Goodbye 2016: la top 20 e qualche allegra riflessione

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Puntuale come sempre arriva San Silvestro e il tempo dei bilanci di fine anno: che dire di questo 2016? Non è stato un anno sensazionale e pieno di soddisfazioni, ma considerando l'annus horribilis che era stato il 2015 io me stessa e me non staremo troppo lì a lamentarci: ogni anno porta con sé il suo ben vagone di lacrime e rabbia, ma anche di belle giornate, occhi sorridenti e ore spensierate, degli amici e degli amori che ci sono e che resistono ai maremoti, frammenti di vita che dobbiamo cercare di non perderci per strada quando lo schermo si annerisce e tutto non va. Auguri or dunque, di un 2017 che possa portare a tutti fortuna e gloria, o quantomeno qualche pezzetto di serenità, sparso un po' qui e un po' là, per colorare la nostra complessissima tela.

Ora bando ai convenevoli e passiamo ai classificoni, faticosissimi da preparare e divertentissimi da insultare: quest'anno sono riuscita miracolosamente a mettere insieme una bella top 20 e considerando che in via non ufficiale è già stata insultata a più riprese direi che è venuta davvero bene! :P Mancano molti titoli fondamentali che per ragioni varie ed eventuali non sono stati più recuperati per mancanza di tempo o voglia, mentre altri ancora sono rimasti fuori perchè per quanto very nice non mi hanno travolto a sufficienza da entrare nelle prime 20 (e non avendo abbastanza posizioni per una top 30 me sò dovuta arrendere, succede).
Avvertenza: troverete SOLO film usciti in Italia nel 2016 perchè da spettatrice ordinaria lo ritengo un modo più corretto di procedere e poi perchè senza un criterio si rischia di perdersi leggermente di casa. Lasciando indietro tante, troppe bozze mai completate che confidiamo di ultimare un giorno o l'altro, la speranza è che il prossimo anno si riesca a vedere di più, a leggere di più e soprattutto a scrivere di più.

PS: No, Civil War e Batman vs Superman non ci sono perchè non mi sono piaciuti, a differenza di Lo chiamavano Jeeg Robot e Doctor Strange che invece erano solo un po' sotto nel gradimento della top 20. 

Pronti con gli insulti? Ok, buon divertimento e buon anno a tutti!

19- Love and Friendship

18- Snowden

17- The Danish Girl

13- Neruda

10- Room

9- Land of Mine

7- Spotlight

6 -Song of the Sea

5- La pazza gioia

4- Sully

 3 -Weekend

1- Carol

Sarebbe stato in classifica se fosse uscito in Italia:

-Indignation, James Schamus


Sono fuori classifica perchè non ancora recuperati(shame on me):
-Macbeth
-I, Daniel Blake
-Paterson
-Juste la fin du monde
-The Hateful Eight
-The BFG

Serietv!
Niente classifiche, solo cose belle/bellissime che ho visto quest'anno:

-Narcos, Netflix 












-The Hollow Crown: The War of The Roses, BBC














-Black Mirror, Netflix











-Outlander, Starz
















-The Crown, Netflix













-Victoria, itv














-Game of Thrones, HBO 















-The Young Pope, HBO 















-Versailles, BBC














-Wallander, BBC














Recuperoni fuori stagione:

-Romanzo Criminale, Sky













-Mr Robot, USA Network













Happy New Year!

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