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Murder on The Orient Express (2017)

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I have seen the fracture of the human soul. So many broken lives, so much pain and anger, giving way to the poison of deep grief, until one crime became many. I have always wanted to believe that man is rational and similised. My very existence depends upon this hope, upon order and methods and the little grey cells, but now perhaps I am asked to listen instead to my heart. I have understood in this case that the scales of justice cannot always be evenly weighed and I must learn for once to live with the imbalance.

Il vagone ristorante e il bar sono uno spettacolo: con le stoviglie apparecchiate al centimetro della precisione maniacale dei grandi palazzi, i calici di cristallo tintinnanti e brillanti di champagne e i dessert deliziosi che sfilano sui tavoli facendoti venire l'acquolina in bocca, Assassinio sull'Orient Express (Murder on the Orient Express) di Kenneth Branagh introduce l'eponimo treno con tutto lo sfarzo e la raffinatezza che l'occhio vorrebbe vedere, simbolo del glamour di quell'Europa che sospesa fra le due Guerre era ancora convinta di viaggiare ben salda sui binari della civiltà e dell'ordine.

Stupire e conquistare con una confezione che giustificasse l'esistenza di un nuovo adattamento per il grande schermo dopo il classico di Lumet del 1974 sembrava essere sin dall'inizio la parola d'ordine per Branagh, deciso a puntare sulla sfilata di grandi star permessa dal copione e su un virtuosismo della macchina da presa da sempre amato e ostentato nelle lunghe carrellate sul treno ma soprattutto nei voli fra montagne innevate e saturi tramonti che la geografia del percorso ha da offrire, prediletti a tal punto da sfruttare ogni occasione utile per sfuggire ai vagoni e indugiare al freddo: tutto giusto e tutto collaudato per viaggiare su binari sicuri e a prova di slavina, ma incapace di lasciar sfrecciare con la giusta cura e velocità un intreccio che ha fatto scuola e insegnato a lettori e spettatori di ogni età il fascino di un'indagine condotta con pazienza e senza intermezzi rocamboleschi, da una personalità curioso e non particolarmente empatica ma talmente iconica da rimanere scolpita nella nostra memoria indipendentemente dalle numerose incarnazioni che l'hanno liberata dalla pagina.  

Ben oltre i tanto vituperati baffi asburgici e il fisico slanciato che poco hanno a che vedere con le caratteristiche fisiche del personaggio (nessuno ha mai fatto troppo caso alla mancata somiglianza del Commissario Montalbano televisivo col personaggio immaginato da Camilleri, ma di esempi ne potremmo fare a bizzeffe) il Poirot di Branagh è un action hero mancato con una background story dolorosa e mai del tutto approfondita, miscelato con ingredienti utili per uno svecchiamento auspicato ma portato a termine con poco sentimento e un unico vero obiettivo: lo slancio nell'universo del franchise di un altro detective a modo suo supereroistico dal cui grande potere derivino grandi responsabilità e con un appuntamento sul Nilo già fissato per un successivo e già annunciato capitolo della Saga.

Una traversata commerciale in cui a pagare il prezzo più alto è il giallo e il suo straordinario potenziale, con una carrellata di personaggi interessanti divenuti figurine cartonate in alcuni casi abbozzate a malapena e pochissimo riguardo per coloro che non conoscono la soluzione al mistero, errore fatale per ogni adattamento del genere: una pioggia di stelle che lavori bene con quanto concesso dal look e dallo script (Michelle Pfeiffer la migliore del gruppo) e alcune soluzioni creative notevoli ("l'ultima cena" finale è davvero un bel colpo) sono pur sempre un bel vedere, ma Assassinio sull'Orient Express avrebbe potuto essere qualcosa di più di un discreto pacchetto da blockbuster o della premessa all'ennesimo franchise: un film disposto a lasciarci osservare invece di limitarci al vedere, come ci ammoniscono i più grandi detective.




La Top! I miei 10 film del 2017

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10 film per salutare il 2017: un anno fatto di pochi film, poche recensioni ultimate e un numero di bozze sospese sempre crescente ma mai abbandonate, con la speranza che davvero, per quanto i problemi ci mettano sempre lo zampino nel 2018 riusciremo a scrivere di più; un anno difficile che non si è fatto mancare delusioni, lacrime, stress, caduta e risalita ma anche un anno di cose belle, belle persone e bei momenti che ci teniamo stretti stretti, per portarli con noi sempre, anche nei passaggi più capricciosi e più "ma anche no". Perchè in fondo, quale anno non si impegna per incasinarti la vita? L'importante è mettere i guantoni e combattere :P

ps: come sempre, la top comprende solo ed esclusivamente film usciti al cinema in Italia nel 2017. Perchè trovo sia più corretto così, perchè fare i bravi cinefili da sala is better. Happy New Year!  


10-Hacksaw Ridge






8-A Monster Calls



7- Jackie



6-Loving Vincent



5-Wonder Wheel






3- Borg McEnroe



2-Dunkirk





Menzioni speciali:

Lady Macbeth- Elle- Wonder- Get Out



Fuori classifica perchè non ancora visionati:

Personal Shopper- The Greatest Showman- Coco- Moonlight- Logan- Detroit- The Founder- Silence

Happy 2018!!!!!!

Wonder Wheel

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"When it comes to love we all turn out to be our own worst enemy."

La vita è una tragicommedia dal finale irrisolto in cui siamo attori e spettatori, prigionieri di ruoli troppo ben interpretati e unici veri responsabili della nostra infelicità e caduta: Dio, le Parche e il Fato potranno anche metterci lo zampino e fare rimbalzare gli anelli sulla balaustra giusta al momento giusto, ma la macchina non si metterebbe mai in moto se ogni nostra azione non avesse una conseguenza e ogni sincera volontà di cambiare non fosse sciacquata via con grande facilità, vinta da una marea di nevrosi e tormenti nella quale forse non sguazziamo poi così male.

Nonostante l'età avanzata e una produttività inarrestabile quanto pericolosa per la qualità stessa del lavoro (un film all'anno sarebbe uno standard difficile da mantenere per qualunque regista più fresco) Woody Allen sa bene quale storia vuole raccontare e come raccontarla, trovando ancora una volta un modo stimolante di rappresentare il dramma in più atti che l'umanità non smette di recitare dalla notte dei tempi e che con l'età sembra occupare con sempre maggiore insistenza i suoi pensieri: assecondando il monito del protagonista del suo precedente Cafè Society che con un sorriso di rassegnazione si riferiva alla vita come a una commedia scritta da un sadico autore, a dare cuore e anima a Wonder Wheel( in Italia, La Ruota delle Meraviglie) è il teatro coi suoi trucchi e meccanismi più amati e familiari, sotto le luci del palcoscenico vintage di giostre sgangherate e vestiti sgargianti della Coney Island degli anni 50', per mettere in scena il fallimento di una donna che per nevrosi e mal di testa non può che rivaleggiare coi personaggi alleniani migliori.


Un narratore invadente e opportunamente silenziato per lasciare il pubblico libero di trarre da solo le proprie conclusioni sugli eventi, una solare ninfetta facile a sacrificarsi sull'altare della gelosia, un marito non malvagio ma zotico e alcolizzato, un ragazzino ossessionato dal fuoco senza un apparente perché se non quello di creare scompiglio, o cercare attenzione da una madre e da un intreccio che vorrebbero al più presto dimenticarlo: tutti entrano ed escono dalla scena seguendo come da copione e con una precisione da teatro greco, mentre la fotografia di Vittorio Storaro punta su di loro la luce dei suoi riflettori dai colori saturi e intermittenti; un'alternanza di aranci, rossi e azzurri, l'irrealtà meravigliosa che respira nell'umore lieto o devastato dell'unica vera protagonista, una Kate Winslet fragile e appassionata che pagherà la sua incapacità di fare pace con gli errori del passato perdendo del tutto il contatto con la realtà e con la felicità che questa avrebbe forse potuto offrirle.

D'altronde, se i sogni sono solo sogni, quale destino dovrebbe attendere tutti quelli che non sanno mettere un freno alle loro fantasie imparando a convivere con la malinconia di ciò che è stato e che non sarà mai? La tragedia di uno sguardo che si spegne e inizia a fissare il vuoto che lo attende, giorno dopo giorno e un mal di testa dopo l'altro, nell'attesa che cali il sipario.


Giovedì al cinema! Conversazione a tre sui film in sala

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Giornata storica oggi per il nostro caro blogfirst impressions! In occasione delle uscite al cinema di questa settimana sono stata invitata dagli illustri Cannibal Kid di Pensieri Cannibali e Mr James Ford di White Russian ad analizzare da vicino i titoli in arrivo. Tenere testa a due blogger duellanti di tale levatura non è stato facile credetemi, ma ce l'abbiamo fatta ed è stato un onore (che poi le cose a tre hanno sempre il loro fascino, ma non lo diciamo che poi rischio di perdere tutta la mia aristocratica reputazione :D) . Pronti a vedere e sbeffeggiare con noi i film della settimana? Let's go!

Tre manifesti a Ebbing, Missouri 

Alessia: Tre manifesti in una cittadina nel bel mezzo del nulla per dire a Cannibal di smettere di scrivere? Dopo anni di storica rivalità, da Ford mi aspettavo quanto meno un un duello di pistola alla Sergio Leone, non queste soluzioni politically correct!
Già accolto meravigliosamente e premiato a Venezia, fresco fresco di Golden Globes arriva al cinema il nuovo film di Martin McDonagh (regista irlandese che aveva fatto scintille col bellissimo e strampalatissimo In Bruges), sulla storia di una madre coraggio coi contro bip decisa a scoprire l'identità dell'uomo che ha violentato e ucciso la figlia diciannovenne. Capolavoro o robetta radical chic piazzata ad hoc per guidare una stagione dei premi dove l'affermazione della donna la farà da padrone? 
Cannibal Kid: Ford, in effetti anche io mi aspettavo qualcosa di più estremo e violento da te, che non degli “innocui” manifesti. Che poi saranno così innocui? Si direbbe proprio di no a guardare il film, che ho già visto e di cui prossimamente scriverò. Sempre che i manifesti di Ford non facciano davvero effetto e mi impediscano di continuare a scrivere. Per la gioia del mondo. 
Ford: a dire il vero, da buon wrestler, attaccherò i manifesti su tre cartelli di legno che sarò felice di fracassare sulla zucca di Cannibal per inaugurare nel miglior modo possibile il duemiladiciotto. Per quanto riguarda il film, che dovrei vedere in questi giorni, penso si tratti di un'ottima proposta fordiana perfetta per iniziare bene l'anno, in barba ad Alessia che gufa senza ritegno una cannibalata radical chic. 

Benedetta follia 

Alessia: Che Verdone sia ormai un autore stanco e vicino all'ebollizione sembra trovare d'accordo anche i nostri agguerritissimi eroi. Questo film, in cui un pio e virtuosissimo proprietario di un negozio di articoli sacri prende a lavorare come commessa una giovane e prorompente venticinquenne, potrebbe essere il trionfo dello stereotipo verdoniano più grigio e insopportabile quanto un lavoro decente e una buona rimessa in carreggiata. Siamo nelle mani di Dio, per rimanere in tema. 
Cannibal Kid: È vero che negli ultimi tempi Verdone pare bollito quasi quanto Ford, però non riesco comunque a volergli male e, per quanto sembra rifare sempre lo stesso film come un Woody Allen de' noantri, il trailer di questo suo “nuovo” lavoro mi ispira una certa simpatia. E quindi mi sa che finirò per dargli un'occhiata, daje! 
Ford: Verdone mi è sempre stato simpatico, anche se la grinta dei tempi d'oro è da un pezzo in pensione. Non credo vedrò questo film, ma nel dubbio, attenderò di capire che ne pensa Cannibal per fare esattamente il contrario. 

 The Midnight Man

Alessia: Un'ombra si aggira minacciosa nella soffitta della nonna... lo vedo, è lui, è Cannibal! Per tentare di sfuggire all'ennesimo giro di tombola natalizia si è rifugiato lì in attesa di tempi migliori, o semplicemente per sfuggire alle domande/interrogatorio della prozia. Non amo particolarmente gli horror (perchè da brava donna coraggiosa finisco sempre a vederli con un cuscino sugli occhi buttando via i soldi del biglietto), ma questa sorta di antiJumanji in cui un gruppo di giovincelli si mette a fare un gioco da tavola che risveglia i loro incubi peggiori potrebbe essere interessante. Poi c'è anche sua maestà Robert Englund, mica bruscolini. 
Cannibal Kid: L'intuito da detective d'altri tempi stile signora in giallo di Alessia c'ha quasi preso. È vero che mi sono rifugiato in soffitta, ma per sfuggire a Ford, non a qualche prozia. Quanto al film, spero che si riveli un horrorino teen scemo abbastanza da potermi piacere, anche se dal trailer sembra prendersi più sul serio di Ford in uno qualunque dei suoi post. Bene così: cosa c'è di più spaventoso?
Ford: gli horrorini teen, di norma, o mi fanno il solletico o incazzare più di Cannibal, che appena troverò nella sua piccola soffitta passerà davvero momenti di paura. L'unica cosa che pare essere interessante di questo The Midnight Man pare essere Robert Englund, sperando che non sia bollito come tanti altri miti che con l'età hanno deciso di prendere la via del non ritorno. Un po' come il Cannibale. 
Cannibal Kid: Ford, stai quindi dicendo che sono un mito? :) 

 Leo Da Vinci – Missione Monna Lisa 

Alessia: Con Coco che si prepara a far vincere l'ennesimo Oscar alla Disney Pixar, questi tentativi dell'animazione italiana di trovarsi un posticino nel mercato mi fanno sempre una gran tenerezza: perplessità massime su questo lungometraggio dedicato al giovane Leonardo Da Vinci, pronto a fregare il tesoro dell'isola di Montecristo al poro Edmond Dantes con qualche secolo di anticipo. Se va tutto bene sarà un'innocua bambinata, ma ho la sensazione che anche i fordini si annoierebbero parecchio. 
Cannibal Kid: A me invece, più che tenerezza, questi film fanno una gran pena. E penso pure ai Fordini. A Ford padre invece no. Lui è pronto a spacciare qualunque innocua bambinata animata come Coco e come questa per un capolavoro assoluto. 
Ford: proprio stasera ho visto il trailer insieme al Fordino, che non mi è parso particolarmente interessato, se non all'ambientazione vagamente piratesca. Fortunatamente, ha ancora negli occhi quel gioiellino di Coco. E va bene così.

10 film per il 2018

Oíche mhaith, Dolores.

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Io senza musica non ci so proprio stare: lo so che il silenzio è importante, che bisogna fermarsi ad ascoltare i rumori del mondo, il traffico cittadino, i gabbiani che starnazzano, tutte quelle cose lì che fanno tanto essere umano ispirato che apprezza il creato senza coperture che magari chissà, la coppia che litiga nel marciapiede di fronte potrà offrirmi uno spunto utile per il mio primo debutto letterario, ma il silenzio proprio non fa per me, è inutile.

Sarà che capitano dei momenti nel romanzo della vita in cui ti senti solo, così disperatamente solo e spaventato da tutto e da tutti, che quel cazzo di silenzio preferisci spegnerlo mettendoci sopra una canzone e allora impari a ripararti le orecchie, quando i rumori che dovresti stare a sentire con tanta attenzione urlano solo rifiuto, disappunto, incapacità di convivere col non essere accettati, compresi, perdonati per le cazzate che si fanno e che lievitano come macigni sotto i quali finisci seppellito nel parco archeologico delle tue piccole grandi speranze; altre volte sono le canzoni stesse che ti vengono in aiuto, inserendosi al momento giusto, insistendo con un battito che ti resta dentro anche se non le ricordi bene perchè all'epoca in cui le hai sentite la prima volta youtube non l'avevano ancora inventato, innestate nella tua storia così in profondità che certi eventi riescono a prendere forma dal tuo passato solo non appena le rispolveri dall'archivio.

Lo so, l'adolescenza fa schifo quasi sempre e per sfuggire all'incantesimo devi essere molto fortunato, non sto dicendo nulla di nuovo o che altri non abbiano altrettanto sperimentato e condiviso nelle ultime ore, ma per la mia generazione, quella che cerca disperatamente una risposta nel passato non così passato ma che sembra 100 anni fa, perchè non sa come imparare a nuotare in questo presente con poco da offrire e che si muove troppo velocemente per stare davvero al passo, la nostalgia è un po' una professione non dichiarata e redditizia (c'è anche chi ne ha fatto un business economico da milioni di dollari, ma solo perchè siamo noi very normal people a nutrirla all'ennesima potenza)ma dal guadagno emotivo impareggiabile: vedere pezzi di quel passato morire diventa così uno strappo di cuore amplificato che riesce a farti tornare subito piccolo e arrabbiato, effetto ratatouille ma con un misto di malinconia e occhi salati più doloroso e straniante di quello che dovrebbe essere, col terreno che ti manca sotto i piedi perchè gli amici che sono stati lì per te, sempre vigili e presenti anche senza saperlo, se ne sono andati.

Eccoci qui allora, a riascoltare le canzoni dei Cranberries e la voce di Dolores O' Riordan, con l'audio pulito pulito che spotify ci concede e che batte il cd ormai graffiato e rovinato del best of  così come le cassette che registravo dalla radio, nel tentativo di ricomporre una compilation anche se l'inizio e la fine erano sempre rovinati dalla voce degli speaker: penso al doppio cd del Festivalbar compilation rossa, a quando I can't be with you sul pulman in gita scolastica tentava di farmi accettare che il ragazzo che amavo non mi avrebbe mai ricambiata, a quando affondando la testa nel cuscino fra le lacrime cantavo please dont' stand in my way pregando di non essere più ferita dalle sciabolate altrui, a quando strillavo Delilah o salvation su e giù per la casa sbattendo da una parete all'altra, a quando ho realizzato Loud and Clear che people are stranger e allora vaffanculo, I Hope the sun beats down on you and skin youself alive, a quando con un nodo alla gola che sembrava non sciogliersi mai, tesa come una corda di violino e sicura che le cose non sarebbero mai andate meglio ho strizzato un altro pianto dentro Daffodil Lament passata in radio, a quando vedendo per la prima volta the Devil's Own ho riconosciuto la canzone di apertura registrandolo e rimettendolo a ripetizione nel registratore, in nome di Dio e dell'Irlanda. Tristezza si, ma anche speranza e fiducia, perchè a fine playlist ti ricordi che a certi mali di vivere sei sopravvissuto e magari puoi sopravvivere anche alla vita vera, quella che prova a metterti i piedi in testa ogni giorno in modo ben peggiore e che di fantasia per farti incazzare ne ha sempre da vendere: perchè my life is changing everyday, In every possible way, perchè ai Dreams che abbiamo imparato a fare ci crediamo ancora e chissà, magari finirà davvero così, You and me Forever be, Eternally it will always be you and me.

Oíche mhaith, Dolores.



Three Billboards outside Ebbing, Missouri

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"Because through love comes calm, and through calm comes thought. And you need thought to detect stuff sometimes, Jason. It's kinda all you need. You don't even need a gun. And you definitely don't need hate. Hate never solved nothing, but calm did. And thought did. Try it. Try it just for a change. No one'll think you're gay. And if they do, arrest 'em for homophobia! Won't they be surprised! Good luck to you, Jason. You're a decent man, and yeah you've had a run of bad luck, but things are gonna change for you. I can feel it."

Benvenuti a Ebbing, Missouri! Se avete deciso di intraprendere un viaggio on the road per conoscere gli States senza lasciarvi distrarre dal caos brulicante delle città della costa Est, Ebbing è certamente il posto che fa per voi: come resistere a questo delizioso centro abitato dove la vita scorre sempre uguale da generazioni, le casette di legno stanno piantate nel bel mezzo del nulla e non si vede un'anima per miglia a meno che non si sia persa imbucando la statale sbagliata, un luogo ameno dove conigli, scoiattoli e cerbiatti scorrazzano felicemente finchè qualcuno non li ammazza e li trasforma in stufato o bistecca (c'è anche un fornitissimo negozio di souvenir, se volete portarvi via qualche ricordino), mentre gli abitanti si dibattono come animali in gabbia lottando ogni giorno per non impazzire, laddove abbiano avuto la sfortuna di non riuscire ad andarsene, preparandosi a convivere con la spenta desolazione e di ciò che li circonda e che sono diventati per tutto il resto delle loro vite aggrappandosi a qualunque pezzo di felicità disponibile.

Un ritratto decisamente poco idilliaco quello di Three Billboards outside Ebbing Missouri (Tre Manifesti a Ebbing, Missouri), ultima fatica di Martin McDonagh dopo i fasti dell'incredibile In Bruges e Seven Psychopaths, ironico e crudele al punto da strizzare un sorriso fra i denti anche quando non sembrerebbe corretto (aiutato dai contrasti della sempre splendida colonna sonora di Carter Burwell), ma autentico fino in fondo e disposto a mettere le carte in tavola senza zuccherare una realtà che ci fa sempre bene dimenticare: è questo il volto della vera America, il paese che ha votato Trump convinto che avrebbe finalmente dato voce alle sue pretese razziste e bigotte, figlie di un isolamento agorafobico che cresce bene cullato da lande sterminate e vuoti esistenziali.


Un Purgatorio che i personaggi di McDonagh respirano sin dalla nascita e che offre ben poche opportunità di riscatto o scappatoia senza neppure i maledetti cigni che in in Bruges rendevano agrodolce la pena dei due criminali da strapazzo, schiacciati dalla loro povera umanità dinanzi alla bellezza dei luoghi da favola della città belga: Ebbing non è il punto di arrivo di una condanna da espiare, ma il luogo di tortura immanente di chi porta lo stigma di essere nato e cresciuto nel posto sbagliato perchè il codice che ci rende belle o pessime persone è scritto dalle circostanze quanto dal libero arbitrio, ancora più difficile a esercitarsi quanto corroso dal dolore.

É così che si sporca l'archetipo, scollando la patina dolciastra che nella storia di una madre coraggio che lotta contro il sistema per trovare l'assassino della figlia non sarebbe stata una sorpresa, per ritrovare una madre sì coraggiosa e determinata ma altrettanto dura e sgradevole, una vittima che altro non era che una normalissima ragazza scontrosa e sboccata e non un impalpabile santino, uno sceriffo pieno di buone intenzioni ma inconcludente premiato dal destino  con un male infame per la sua rispettabilità e correttezza, mentre al più razzista e disadattato dei poliziotti del distretto è concesso tentare di riscattarsi dalla sua ignoranza anche se con metodi ben lontani da quanto auspicherebbe la società civile; tutti esseri umani imperfetti ne buoni ne cattivi, tutti decisi a fare la loro parte a modo loro nella bizzarra e tragicomica farsa che è la vita e a non rimanere inerti dinanzi all'orrore che la governa e che non risparmia nessuno, nemmeno i padri di famiglia adorati o chi prova davvero essere buono e gentile per finire deriso e mai compreso: tutti figli del grande cinema di McDonagh.


Oscarometro:
Il duo Frances McDormand/Sam Rockwell è in uno stato di grazia tale che una mancata premiazione sembra inconcepibile. Woody Harrelson meriterebbe altrettanto, ma la prova di Rockwell è un unicum, non si discute. Senza la nomination alla regia la vittoria a miglior film diventa piuttosto difficile, ma mai dire mai, considerando che in un'annata che più che mai ha posto l'accento sulla donna e la sua lotta contro violenze e abusi di potere la sensibilità scatenata dalla trama potrebbe giocare a suo favore. Premiando un grande film, si capisce.

The Shape of Water

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"Unable to perceive the shape of You, I find You all around me. Your presence fills my eyes with Your love, It humbles my heart, For You are everywhere..."

"Tale as old as time" cantava la canzone di Alan Menken mentre la Bella e la Bestia volteggiavano nel salone da ballo vestiti di tutto punto, decorosamente abbottonati nei loro dorati abiti finto settecenteschi: il mito della bella fanciulla innamorata di una creatura mostruosa è vecchio come il tempo e impresso nella carne dell'uomo quanto nella sua immaginazione e fantasia, forte nella consolazione dell'idea che l'amore possa prescindere dall'aspetto esteriore in nome di un oltre che anche il più cinico e disilluso non può fare a meno di bramare, nel silenzio delle notti in cui nessuno potrà mai disturbare o criticare i suoi desideri più segreti.

Un mito che non ci stanca mai e dribbla facilmente il sapore di già visto e già sentito e che ci regala un sollievo sempreverde, ma ha anche bisogno di nuova linfa per riuscire a emozionare davvero e non stagnare in una mera resurrezione del canonico, vivido e magico come lo è sempre stato sin dalle prime immagini che ci hanno trovato nell'infanzia: fra le mani di Guillermo Del Toro, guardiano di tante creature mostruose, fantasmi, freaks reietti e incompresi da un mondo che sa essere più gore e spaventoso di loro stessi, il rispetto per la diversità dei personaggi e l'importanza del messaggio sono rispettati alla lettera e non solo in The Shape of Water ( in Italia La Forma dell'Acqua), favola moderna che contrappone il suo cuore ai verdognoli Stati Uniti dei primi anni 60' e di una Guerra Fredda le cui dinamiche risultano a volte tanto assurde da sfiorare l'ilarità involontaria.

Un'esperienza non inedita per Del Toro, che ha dato il meglio di sé nello sposare il fantastico alla causa di un periodo storico e di un paese distorti con il meraviglioso Labirinto del Fauno e ancor prima ne La Spina del Diavolo, ambientati entrambi nella pasionaria Spagna durante e dopo la fine della Guerra Civile e il trionfo del Franchismo: la scena desolante di una sconfitta annunciata dove l'innocenza dei bambini offre il solo barlume di speranza possibile per continuare a combattere e andare avanti, alla ricerca di una salvezza sempre più fioca ma non ancora perduta.

Nessun sogno di bambino a portare luce nelle vite tristi e solitarie dei personaggi di The Shape of Water,  ma un qualcosa di altrettanto potente e non meno incantato e misterioso: la leggerezza di una giovane donna, privata con violenza della voce da bambina e così restituita dalle acque del fiume dove era stata gettata non si sa da chi ne perchè, una principessa senza voce che respinge il pallore delle sua vita allagando d'acqua i suoi sogni e  che a quell'acqua che così tanto le aveva tolto desidera tornare, attratta da una connessione mentale e sessuale che non ha bisogno di troppe spiegazioni.

Conosciamo Elisa e il suo caschetto nero, il look curato e la passione per le scarpe che lucida con cura ogni mattina, l'amore per i vecchi musical e lo scalpitare dei suoi piedi a colpi di tip tap prima di uscire di casa, lo sguardo dolce e assente che si perde attraverso i vetri bagnati dell'autobus che ogni giorno la porta nel laboratorio di massima sicurezza dove fa le pulizie, una fra le tante donne in grembiule verde invisibili e insignificanti agli occhi dei pezzi grossi della struttura; quasi un'Amelie Poulain di Baltimora, con tanto di amico pittore a farle da vicino di casa e confidente(via la colazione dei canottieri di Renoir e avanti con la pubblicità di famiglie bianche felici e gelatine perché questa è l'America dei sixties), immersa in un acquario interiore ricchissimo ma molto meno infantile della sua cugina francese, dimostrando sempre grande maturità e risolutezza su cosa serva alla sua felicità quanto al suo corpo.

È questo uno dei più grandi pregi dell'ultimo lavoro del regista messicano, avere avuto l'ardire di sporcare la purezza della fiaba di pulsioni sconvenienti, andare oltre il romanticismo garbato che tanto ci piace quando ciò che comanda la passione è il coraggio di esplorare la sintonia irresistibile, il groviglio inappagato di sogni e fantasie che dobbiamo seppellirci dentro e che di rado ci viene concesso di rivelare e consumare: se sono le pulsioni che ci fanno sentire vivi, la retorica e la prurigine che vorrebbero la bella abbandonarsi alla Bestia solo dopo la trasformazione in principe azzurro possono finalmente farsi da parte, mostrandoci un'eroina che si masturba quotidianamente e che si abbandona del tutto all'attrazione per il mostro perché si, la carne vuole la sua parte e a volte è meglio togliere i vestiti piuttosto che stringerli accuratamente in attesa del gran ballo.

Una storia che conosce l'attrazione e pur cedendo a qualche battuta ironica inevitabile(se ironizzare sul sesso è parte della nostra quotidianità è giusto che lo sia anche per i personaggi) riesce comunque a usarla a naturale completamento di un amore nato senza bisogno di parole, come da copione, concedendoci persino un numero musicale che superata la riluttanza inizial non risultà nemmeno così insolito, ripensando a trascorsi disneyani e non solo: con un'espressività pazzesca ben oltre quanto richiesto dal ruolo la Elisa di Sally Hawkinsè la migliore principessa che potessimo desiderare, mentre la creatura interpretata da Doug Jones (alla sua ottava collaborazione con Del Toro) ci ammalia subito con le sue sfumature di verde e azzurro e una figura maschile possente , un contrasto riuscito e avvolgente con quella piccola e esile della sua amata.

Intorno a loro, un'America ossessionata dalla paura del comunismo e dalla ricerca della supremazia scientifica e militare, dall'appartenenza a una frangia sociale elitaria che si compra con beni di lusso inappaganti e dal suo stesso indisponente ottimismo: il rifiuto istituzionalizzato di ogni segno di cedimento e debolezza incarnato alla perfezione dal personaggio di Michael Shannon, colonnello implacabile e padre glaciale di una famiglia che per lui non ha alcun peso ne valore se non quello che il suo prestigioso incarico possa comprare; un figlio del suo tempo, come lo era lo spietato Capitano Vidal del Labirinto e come lui destinato alla menomazione fisica e alla deformazione, nel manifestarsi di un orrore interiore alimentato dallo spirito della Nazione.

Eppure, oltre le contraddizioni e la delusione nei confronti di una Terra che vende sorrisi smaglianti e libertà ma dietro il bancone prepara torte disgustose quanto l'ipocrisia, il razzismo e l'omofobia che troppo spesso la infestano, qualcosa di buono e del tutto americano rimane: per Del Toro, messicano acclamato ma pur sempre straniero oltre la frontiera il collante è il cinema con le sue meraviglie, il grande schermo che sotto la polvere dorata della nuova e vecchia Hollywood trova il modo di farci sospirare e intenerire anche dinanzi alla più inflazionato dei topoi narrativi, ambasciatore  a vita di inclusione e comprensione anche quando il mondo vorrebbe non vedere e non sentire.

Merito di un creatura strana, questo The Shape of Water, a cui piace immergersi in un genere per poi tuffarsi subito in un altro per incasellare citazioni su citazioni, fino a chiudere il cerchio portando i due stessi innamorati in una sala cinematografica e diventando così un grande omaggio a sé stesso: un sogno leggerissimo che neanche te accorgi, come quando ci blocchiamo a guardare le gocce di pioggia incollate al finestrino incantati dalla bellezza di quelle forme piene di luci e trasparenze infinite, o come quando ritroviamo la pace sognando di essere senza peso ne pensieri, a fluttuare nel nostro appartamento, divenuto all'improvviso più morbido e accogliente sotto una montagna d'acqua.


Oscarometro:
Per quanto annunciato da una sfilza di nomination il trionfo di The Shape of Water agli ultimi Academy Awards è stato per molti versi una vera sorpresa: nessun dubbio sulla Vittoria del comparto tecnico, di Alexandre Desplat per la colonna sonora (non una delle sue migliori ma comunque delicata e "zampillante" al punto giusto da meritarsi il premio) e Guillermo Del Toro alla regia, ma la vittoria per il miglior film tenendo presenti le tendenze e i favori che tradizionalmente investono l'Academy è stata in effetti abbastanza sorprendente. Una statuetta meritata? Certo che si, per quanto a farne le spese siano stati altri film nettamente superiori come Three Billboards outside Ebbing Missouri, altro grande favorito, e Phantom Thread, il mio preferito della tornata ma con zero possibilità. Nessuna remora per la mancata statuetta a Octavia Spencer (personaggio simpatico, ma praticamente uguale ad almeno altri due già interpretati e lodati ampiamente).

Menzione a parte, se pur non coperta da alcuna nomination, per il bellissimo personaggio interpretato da Michael Stuhlbarg, spia russa più devota alla scienza e alla sua nobiltà d'animo che alla causa comunista.




Irish Film Festa 11, dal 21 marzo alla Casa del Cinema di Roma

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Giunge all’11a edizione IRISH FILM FESTA, il festival interamente dedicato al cinema irlandese che quest’anno si terrà dal 21 al 25 marzo 2018, come di consueto alla Casa del Cinema di Roma; un'occasione unica per innamorarsi e riscoprire il cinema irlandese e i titoli più interessanti e promettenti che questo ha da offrire, in uno spirito unitario che guarda con interesse e soddisfazioni sia a lavori prodotti nell'Eire che nel Nord Irlanda, in una manifestazione che il direttore artistico Susanna Pellis ha sempre giustamente definito "All Ireland".

IRISH FILM FESTA dedica, come sempre, ampio spazio ai cortometraggi: alla sezione concorso nata nel 2010 e che quest’anno comprende sedici opere, si affianca Making Shorts, un panel di approfondimento sul settore del cortometraggio nell’industria cinematografica irlandese e nordirlandese al quale parteciperanno registi, distributori e professionisti del settore. Fuori concorso sarà inoltre presentato il cortometraggio d’animazione in gaelico An Béal Bocht (The Poor Mouth) di Tom Collins, tratto dall’omonimo racconto di Flann O’Brien e premiato al Galway Film Fleadh 2017.

Tra i lungometraggi in programma troviamo invece Song of Granite di Pat Collins, originale biopic dedicato al cantante irlandese Joe Heaney (1919 – 1984), e soprattutto Maze di Stephen Burke, sull’evasione di 38 detenuti repubblicani dal carcere di Long Kesh nel 1983. Saranno al festival il regista, la produttrice Jane Doolan e il protagonista Barry Ward (lo ricordiamo in Jimmy’s Hall di Ken Loach). Maze ha ottenuto un grande successo di pubblico in Irlanda (è al momento il film irlandese ad aver incassato di più nel primo fine settimana in sala, record precedentemente detenuto da Room di Lenny Abrahamson.

In anteprima italiana vedremo Kissing Candice, film d’esordio della regista di videoclip musicali Aoife McArdle appena passato al Toronto Film Festival e alla Berlinale, film adolescenziale del tutto fuori dagli schemi con l’attore nordirlandese John Lynch nel ruolo del padre del protagonista.

Altro titolo degno di nota è Handsome Devil, scritto e diretto da John Butler (The Stag – Se sopravvivo mi sposo) un delicato racconto di formazione ambientato in collegio, fra studio, rugby e importanti prese di coscienza. A fianco dei due giovani protagonisti Fionn O’Shea  e Nicholas Galitzine, spiccano Andrew Scott e Moe Dunford nel ruolo degli insegnanti.


Non si interrompe il legame tra IRISH FILM FESTA e Cartoon Saloon, lo studio d’animazione con sede a Kilkenny sempre più apprezzato a livello internazionale: dopo The Secret of Kells (2009) e Song of the Sea (La canzone del mare, 2014), al festival sarà proiettato The Breadwinner di Nora Twomey. Accolto con entusiasmo nel circuito dei festival e candidato agli Oscar 2018, The Breadwinner è tratto dal romanzo omonimo della canadese Deborah Ellis (pubblicato in Italia da BUR col titolo Sotto il burqa) e vede protagonista Parvana, una ragazzina afghana che vive sotto il regime talebano. Il film che ha coinvolto nella produzione anche Angelina Jolie è un’ode al potere delle storie e dell’immaginazione, portata sullo schermo attraverso un approfondito lavoro di ricerca sulla cultura visiva e favolistica dell’Afghanistan.


Nell’ambito della nuova sezione #IFFbooks, dedicata alla letteratura irlandese, IRISH FILM FESTA presenterà infine My Astonishing Self: Gabriel Byrne on George Bernard Shaw, un documentario realizzato da Gerry Hoban per RTÉ (la televisione pubblica irlandese) e BBC in cui il celebre attore Gabriel Byrne guida gli spettatori alla scoperta della vita e delle opere di Shaw. A Gabriel Byrne, che proprio quest’anno ha ricevuto il premio IFTA alla carriera, si lega anche la scelta dell’Irish Classic, Into the West (Tir-na-nOg – È vietato portare cavalli in città, 1992): scritto da Jim Sheridan e diretto da Mike Newell, il film è una fiaba moderna ambientata nel mondo dei Traveller, l’etnia nomade irlandese. Nel cast, oltre a Byrne, anche Ellen Barkin, Colm Meaney e Brendan Gleeson.

#IFFbooks prevede poi un incontro con il pluripremiato scrittore irlandese Paul Lynch, autore di tre romanzi: Red Sky in Morning (Cielo rosso al mattino, 2013), già pubblicato in Italia dalla casa editrice 66thand2nd, The Black Snow (2014) e Grace (2017). Lo stile di Lynch, paragonato a quello di Seamus Heaney e Cormac McCarthy, ha ricevuto apprezzamenti da affermati scrittori irlandesi come Sebastian Barry e Colm Tóibín (Brooklyn).

Mi raccomando, non mancate e Slán go fóill!

Irish Film Festa 11: Maze, Stephen Burke

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Una griglia di fratture e microfratture, fratello contro fratello e Dio contro Dio, fino a un cessate il fuoco a lungo sospirato ma incapace di guarire fino in fondo le ferite che hanno scavato solchi nella sensibilità e nel malessere di un paese intero: questa la storia dell'Irlanda del Nord, l'Ulster che a scuola tendiamo a confondere con l'Eire con tanta leggerezza e che invece si porta dietro l'eredità conflittuale di una lotta nobile e antica, ma combattuta con le armi della paura e del terrorismo da una parte e con ferma repressione dall'altra; così si gioca il rimbalzo delle responsabilità, le bombe dell'IRA nei pub e nei locali pubblici con gli innocenti che pagano il prezzo più alto, la risposta britannica che si accanisce reprimendo con la violenza proteste pacifiche e spargendo sangue sulla strada, processi senza attenuanti e una risposta carceraria di durezza non comune, nel carcere di massima sicurezza più imponente e inespugnabile d'Europa che si presenta come un labirinto profondo di alienazione e annullamento.


Da qui riparte Maze di Stephen Burke, presentato nel corso dell'Irish Film Festa presso la Casa del Cinema di Roma dedicato all' evasione che coinvolse ben 38 terroristi dell'IRA, sfuggiti in modo rocambolesco dalla fortezza dell'HM Prison Maze (conosciuta anche come Long Kesh) nel settembre '83, per essere per lo più riacciuffati subito o uccisi qualche anno dopo; una grande fuga degna di Steve McQueen, preparata e studiata con altrettanta cura dalla mente Larry Marley, sopravvissuto al terrificante sciopero della fame che si portò via tanti detenuti determinati a veder riconoscere i propri diritti di prigionieri politici in nome dell'Irlanda per cui avevano combattuto, magra consolazione per tutte le famiglie che non li hanno mai più visti tornare a casa. 


L'idea di Marley non è priva di intuizione: fallito lo sciopero senza ottenere validi risultati, una fuga dal Labirinto risveglierà le coscienze e manterrà viva la causa indipendentista, ormai esasperata dalle tante morti che l'hanno insanguinata, in un'azione dimostrativa senza precedenti che sarà possibile solo lavorando a stretto contatto con le guardie carcerarie che provano per lui solo disprezzo e diffidenza. Sullo sfondo, le frange unioniste che all'interno della stessa ala del carcere disprezzano e contrastano la loro stessa esistenza, risse e avvertimenti che si riveleranno un ottimo catalizzatore: a dare un importante e inconsapevole contributo sarà Gordon Close, guardia carceraria altrettanto esasperato dalle maglie del labirinto e dall'asprezza delle gerarchie, oltre che da una vita personale che sotto la pressione della minaccia terroristica incombente inizierà a vacillare improvvisamentre. 

Il più grande rischio che si possa correre trattando un argomento tanto delicato è cadere nella trappola della faziosità e non concedere alle parti in causa pari opportunità di difesa e spiegazione, incarnando il buono e il cattivo in un unico e intoccabile paradigma: non è questo il caso del film di Burke, che pur  facendoci simpatizzare col destino dei carcerati e sospirare in ogni singola tesissima fase del Big Day mantiene egualmente il distacco necessario sfumando al meglio la problematica figura di Marley (eccellente l'imperturbabile Tom Vaughan Lawlor), convinto militante dell'Ira ma non al punto di sacrificare la sua unica possibilità di ritornare dalla sua famiglia: l'interesse per il destino di Gordon(ottimo Barry Ward, dall'altra parte della barricata anni dopo la sua interpretazione in Jimmy's Hall di Ken Loach) non è sincero, ma non è chiaro fino in fondo dove finisca la menzogna e inizi l'empatia che dall'altra parte risponde a una sincera e incompresa disposizione a cambiare le cose. Come trovare la pace se anche il minimo cedimento si traduce in una nuova escalation? Ci sarebbero voluti ancora molti anni e tante morti (lo stesso Marley venne ucciso dagli unionisti poco dopo essere uscito di prigione) per arrivare agli accordi del Venerdì Santo e alla deposizione delle armi, ma alla vigilia di una Brexit voluta dal governo centrale e che rischia di mettere in seria discussione il futuro irlandese le domande senza risposta che tormentano il paese sono ancora tante, forse troppe. 

A futura memoria di quegli anni così difficili in cui tutto e niente sembrava possibile ci resta un film asciutto, girato con inquadrature grezze nelle spente profondità dei rami della prigione come nella gola di un mostro soffocante che tutto e tutti divora: il fantasma di un mondo che era ieri ma che in fondo è ancora qui, troppo inquieto per trovare finalmente la sua pace. 

Irish Film Festa 11, My Astonishing Self: Gabriel Byrne on George Bernard Shaw

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Gli Italiani hanno Leonardo Da Vinci, gli Inglesi William Shakespeare, gli Irlandesi George Bernard Shaw: è stato lo stesso drammaturgo a pronunciare queste parole, con la sua solita istrionica consapevolezza, sotto i baffi della lunga barba che aveva sempre portato e che l'aveva aiutato a costruire una maschera efficace e familiare per tutti gli spettatori dei suoi lavori: a lui, nato a Dublino ma Londinese di adozione dopo aver lasciato la patria a 20 anni e aver conquistato fama e fortuna nella capitale britannica, Gabriel Byrne ha dedicato il documentario "My Astonishing Self: Gabriel Byrne on George Bernard Shaw", trasmesso dal canale irlandese RTE e dalla BBC e presentato alla Casa del cinema di Roma nell'ambito dell'Irish Film Festa, per riscoprire vita passioni e oscurità di un autore che pur godendo di facile riconoscibilità presso gli irlandesi non è riuscito ottenere la stessa popolarità di altri conterranei.

Eppure è la stessa vita di Shaw ad eleggerlo a simbolo della più pura e tradizionale parabola irlandese: nato nella povertà di una famiglia infelice, vessato da bullismo in una scuola dal rigido classismo sociale e religioso, schiacciato dalla solitudine che ogni spirito avventuroso non può non avvertire su un'Isola che gli rigetta addosso tutta la sua timidezza, il Giovane Shaw passa il mare e cerca in Inghilterra il riscatto tanto atteso, preparandosi a vivere la sua vita da straniero in terra straniera; visibilmente toccato da sentimenti con lui condivisi, Gabriel Byrne ci conduce nei luoghi dell'infanzia di Shaw e lo segue a Londra fin dentro la British Library, testimoniando la costruzione ad hoc del suo stesso personaggio e la sua formazione culturale e ideologica, la stessa che gli ha dato la forza di vincere ogni riservatezza per tirare fuori estro e humour.

Così nasce il George Bernard Shaw più amato, l'omino graffiante che non dormiva mai consapevole di dover farsi da sè in ogni senso, capace di parlare al pubblico sposando il riso ad una critica sociale aspra ed efficace che scandalizzò l'Inghilterra vittoriana, ponendo il seme dell' idea che chiunque debba formare senza condizionamenti la propria opinione ed esaltando chi lottava per far sentire la propria voce, operai e suffragette: volti del calibro di Ralph Fiennes, Gemma Arterton e Nicholas Hytner raccontano il loro amore per l'autore e come abbiano devotamente lavorato all'interpretazione dei suoi personaggi, vivaci e moderni ben oltre i tempi ancora incerti in cui vivevano. 

Oltre la celebrazione e l'affetto per Shaw, la visita della sua casa museo e del piccolo casotto girevole dove tentava di inseguire il sole per scrivere al meglio e il più possibile c'è spazio anche per ombre e delusioni: la voce calma di Byrne si sofferma sulle simpatie del drammaturgo verso Mussolini e Hitler, la dittatura esaltata come mezzo per riportare in vita il socialismo che amava e che sembrava morire ogni giorno di più, imponendo decisioni e cambiamenti e uccidendo la formazione delle coscienze che tanto aveva difeso in passato.

Una macchia che ha contaminato la genuinità del personaggio e il rispetto di molti, ma che non può cancellare i meriti dell'uomo che ha scritto Santa Giovanna e Pigmalione: un irlandese che ha tratto dal suo essere irlandese le sue qualità migliori, uno spirito anticonformista che ha dovuto lasciare il suo paese per iniziare davvero a respirare per poi ritrovarlo nella maturità; come lo stesso Gabriel Byrne, come un vero irlandese.


Mary Magdalene

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Quando cresci in Italia ci fai l'abitudine, più che altrove: i film a sfondo religioso te li somministrano sempre, a scuola o al catechismo, nelle giornate di festa che naturalmente li richiamano, perché le immagini facciano la loro parte nel dare corpo a una fede trasparente che i più fortunati riescono a preservare nonostante le domande bussino sempre alla porta, impertinenti.
Un pentolone ingombro e curioso dove puoi trovare fiction anni 90' e grandi produzioni d'autore, il classicismo dorato e la pompa magna della vecchia Hollywood, profanazioni pop e scandalosi spunti da best seller agitati e mescolati a quel po' di anarchia che la santità richiede in tutta la sua anomalia; questa volta, a risorgere nel racconto cinematografico è la bistrattata ma sempre ben monetizzata figura di Maria Maddalena, riabilitata pienamente da Papa Francesco solo nel 2016 e ora assolta anche dal grande  schermo grazie al film diretto da Garth Davis con protagonista Rooney Mara.


Con tale nobile consapevolezza, Mary Magdalene (Maria Maddalena) lavora sempre dalla parte della sua eroina, disegnando il ritratto di una giovane prigioniera di un tempo che vuole la donna proprietà prima del padre e poi del marito, a cui si impedisce di recarsi in Sinagoga per pregare Dio in solitudine e senza permesso, considerata posseduta dal demonio per aver osato ribellarsi alla volontà della famiglia: la luce arriva, nella forma carismatica del Cristo di Joaquin Phoenix, per condurre Maria ad una vita itinerante che le impone di rinunciare ad ogni cosa, donandole così la libertà d' azione e di spirito tanto agognata.

Una rilancio in chiave moderna e femminista col quale si empatizza facilmente ma che inciampa nella sua stessa purezza d'intenti: aver pagato di essere conosciuta come una prostituta redenta era forse già abbastanza, ma una figura più sfumata avrebbe di certo aiutato a rendere il suo cuore più sentito e più vero. 
Contro le originali aspettative, ad essere più interessante rimane il percorso delle controparti maschili: Pietro invidioso e impaziente di imporre la propria guida e la propria visione, Cristo consapevole di doversi scontrare con un mondo sordo e che ben conosce la rabbia e la frustrazione, fino al più sorprendente di tutti, un Giuda dalla devozione assoluta e pur distrutto dal bisogno di vedere realizzarsi la promessa di salvezza celeste ripetutamente rinnovata dal suo Maestro; nessun santino, nessun malvagio preso fra le grinfie di Satana, solo uomini che lottano contro la propria fragilità e umanità, in alcuni casi fallendo miseramente.

Pur senza macchia e turbamento, Maria affascina e ci fa innamorare della sua dolcezza quanto della freschezza della sua determinazione, ben incarnate dalla luminosa e leggera presenza di Rooney Mara: attraverso i suoi occhi presenti e testimoni scorgiamo le embrionali manifestazioni di un primo cristianesimo di anarchia e insubordinazione, ma già in grado di raccogliere l'atavico desiderio di salvezza dell'uomo facile a trasformarsi nel morboso bisogno di afferrare e divorare il mistero di ciò che non conosciamo.
Un Dio imperscrutabile ma che senza dubbio abita il film di Garth Davis, nel sole che filtra attraverso le reti da pesca e la pace delle acque, nel silenzio e nella calura della terra che il Trapanese porta con sè ispirando una viandanza senza tempo, ma anche nelle musiche essenziali e scroscianti di Jóhann Jóhannsson, recentemente scomparso.



First Man

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"I don't know what space exploration will uncover, but I don't think it'll be exploration just for the sake of exploration. I think it'll be more the fact that it allows us to see things. That maybe we should have seen a long time ago. But just haven't been able to until now."


"Here's to the ones who dream, crazy as they may seem": i sognatori di Damien Chazelle ci piacciono così, sempre forti di quella determinazione un po' cieca e un po' incosciente che ti mantiene dritto sulla via dell'obiettivo, non importa quanti tagli e cicatrici ci vorranno e quanto possa essere alto il prezzo domandato, che sia la fine di un amore, il trincerarsi in una gabbia di vetro dove nessuno potrà mai raggiungerli o addirittura la vita stessa, con la morte di tanti colleghi e un'elevata probabilità di seguire il medesimo tragico destino; non per la notorietà, non per la gloria, ma perché solo una volta toccate le stelle sedare il dolore e trovare pace diverrà finalmente possibile.

C'è tanto del romanticismo di La La Lande del sangue e delle batterie di Whiplash nel viaggio del First Man Neil Armstrong, il più classico dei Ryan Gosling, pilota taciturno e imperscrutabile reso ancora più schivo da una tragedia personale per la quale non esistono parole: sostenuto con coraggio dalla paziente moglie (una battaglia di primi piani sugli occhi azzurri della bravissima Claire Foy) e dagli amici più stretti ma egualmente solo e sempre altrove, incastrato nelle anguste postazioni di comando coi suoi fantasmi in attesa che questi possano volare via, liberi nel silenzio dello spazio infinito.

Avrebbe dovuto essere un'avventura, di quelle che accendono lo sguardo dei bambini e vendono bene il prestigio delle Nazioni, ma alla fine altro non è che il grande balzo di un uomo che non appartiene davvero al suo tempo ne all'umanità intera(pochissimi e poco approfonditi gli accenni agli anni 60' e al valore politico e patriottico dell'impresa) ma allo sguardo del suo autore e di chi ha provato a condividerne passioni e tormenti, le ore e ore di addestramento in condizioni proibitive e i tanti lutti e assenze lungo la strada, toccando da vicino il sogno ma anche le sue ombre più crudeli.

Così, quando torni coi piedi per terra dopo aver ballato e tremato e ruotato e rimbalzato in un gioco di prospettive da maestro che ti piazza a un palmo dai controlli impazziti e traballanti e ti costringe a guardare il finestrino infuocarsi e ghiacciarsi, sei lieto che Chazelle ti abbia raccontato ancora una volta quella storia alla quale non sa e non intende resistere: lo spettacolo visivo e musicale che per farsi perfezione e leggerezza deve nascere dalla disponibilità al sacrificio più grande, ma soprattutto uscire incolume dall'estenuante centrifuga delle percussioni. E quanto sono belle le lavatrici sonore di Chazelle.


Top Ten 2018. Let's start again!

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I miei 10 film dell'anno ormai passato (in base all'uscita italiana, che la stagione dell'uscita in sala per il pubblico è L'UNICA che conti davvero e non mi piace bluffare). Niente Roma e niente Dogman giusto perchè non li ho ancora visti, Niente Lady Bird perchè l'ho odiato come poche altre robe vendute come capolavori assoluti, poche recensioni in un anno vissuto pericolosamente ma con la speranza di tornare a scrivere di più fra una battaglia quotidiana e l'altra. Mi raccomando 2019, comportati bene.

1) First Man, Damien Chazelle

2) Phantom Thread, Paul Thomas Anderson


4) The Shape of Water, Guillermo Del Toro

5)I, Tonya, Graig Gillespie

6)The Post, Steven Spielberg

7)Sulla mia pelle, Alessio Cremonini

8)Mary Magdalene, Garth Davis

9)Bohemian Rhapsody, brian Singer/Dexter Fletcher

10)Call me by your name, Luca Guadagnino



Green Book

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Green Book era il film perfetto per portarsi a casa la statuetta e non a torto: un ottimo compromesso fra impegno e intrattenimento, americano nel profondo nel saper essere severo con la storia della sua Nazione quanto affettuoso con coloro che hanno contribuito a forgiarne il cuore più ottimista e generoso, gli anni 60' che già avevano portato fortuna a Guillermo Del Toro l'anno scorso e che tornano prepotenti con il loro sgargiante spettro di colori, eleganza, sonorità e contraddizioni.

Si attraversa l'America della segregazione (sull'itinerario c'è anche Jackson, l'infame città di The Help), stereotipi culturali e razziali si scontrano e si rovesciano a contatto con l'italianità sfacciata e spassosissima di Viggo Mortensen (a cui come italiota non avremmo dato 2 lire, e invece), si resta commossi e ammirati dalla compostezza dolorosa di Mahershala Ali il cui Oscar non può non dirsi meritatissimo.

Un road movie di 130 minuti che sfrecciano via leggeri leggeri, di quelli che ti fanno bene mescolando risate e riflessioni a brevissima distanza e ti fanno viaggiare lontano, per poi riportarti a casa al calore del cuore che si, un po' retorico lo è, ma ne hai lo stesso un gran bisogno, e soprattutto la storia di un'amicizia maschile con due protagonisti agli antipodi che imparano a rispettarsi e comprendersi e che pur non dicendo nulla di nuovo funziona benissimo così.

Ok, la pasta con le vongole era visibilmente scotta, ma ti mette addosso così tanta voglia di pollo fritto del Kentucky Fried Chicken che vabbè, per stavolta passi.

Stan & Ollie

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" It was fun while it lasted, wasn’t it, Stan? I’ll miss us when we’re gone."

C'è tanto cuore ma altrettanta malinconia in Stan & Ollie: come una lacrima che resta sospesa a metà, quando sbirci dietro le quinte di quelle immagini che ti sei portato dietro fin dall'infanzia e che ancora continui a vedere e rivedere ( le repliche degli sketch sono attualmente in onda tutti i giorni su raimovie), familiari e arcinote eppur sempre diverse e divertenti come se l'immortalità di chi le ha popolate e animate fosse scontata nonché dovuta, per ricordarti che anche il Dio più luminoso e beffardo altri non è che un essere umano fragilissimo capace di cose straordinarie. 

La maschera cade e rivela la tragica ironia di una vita che non capisce più dove inizia la finzione e finisce la realtà, di comici che non possono mai permettersi di essere seri o delusi e gettare via la loro bombetta con rabbia perché siamo noi col nostro stesso affetto a non consentirgli di abbandonare mai il personaggio, le contraddizioni e il valore di una vera amicizia fatta di compromessi e tradimenti ma anche di un legame unico, non intercambiabile, magia irripetibile e per questo sigillata dalla scomparsa dei suoi protagonisti.

Potremmo chiederci se sia giusto omaggiare Stan Laurel e Oliver Hardy lasciando in bocca allo spettatore l'amarezza per l'inevitabile fine del percorso, la tristezza per tutto quello che sarebbe ancora potuto venire e non avremmo mai l'opportunità di recuperare, facendogli soltanto intravedere l'epoca d'oro degli Studios di Hollywood con un piano sequenza da manuale nei primi minuti per poi catapultarlo subito nella grigia Inghilterra degli anni 50' ancora sottoposta a razionamento postbellico, ma alla fine del film non hai più alcun dubbio: per un'opera che mira a celebrare e non a raccontare canonicamente vita e carriera dei suoi beniamini, la via per la consacrazione passa attraverso lo svelamento di sacrifici e cadute, trovate geniali e parole smezzate, le scintille di una vita che con le sue curiose combinazioni di legami e intrecci di cuore sa renderti un Dio immortale anche se non l'avresti mai creduto possibile.




La La Land

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"...And here’s to the fools
who dream
Crazy, as they may seem
Here’s to the hearts that break
Here’s to the mess we make."

La cosa più grande che tu possa imparare è amare e lasciarti amare, ma non al prezzo di un sogno troppo grande per rischiare di rimanere chiuso nel cassetto: i versi di Nature Boy che erano divenuti il motto del Moulin Rouge di Baz Lurhmann avrebbero potuto trovare terreno fertile anche in La La Land di Damien Chazelle, seconda prova di pregio del trentaduenne regista dopo Whiplash e film musicale nel genere quanto nell'ambientazione, se solo non fosse stato lontano anni luce dalla riproduzione di un archetipo che ponesse le basi per una romantica e appassionata fantasia d'amore come era invece accaduto nel film di Lurhmann; torna prepotente piuttosto il tema della prioritaria realizzazione delle proprie ambizioni, parecchio caro a Chazelle per ragioni che non escludiamo essere prettamente autobiografiche, rivestito di un approccio di cuore più soft che lascia indietro gli schizzi di sudore e sangue rimasti sulla batteria di Miles Teller ma non per questo rinuncia a spezzarci il cuore e a farci soffrire.

La love story fra Mia, attrice in erba che lavora nella caffetteria degli Studios inseguendo un provino dietro l'altro e Sebastian, pianista Jazz con un'anima antica in un mondo troppo accelerato per riuscire ad apprezzare ancora il sound di Charlie Parker e Miles Davis, è il classico incontro/scontro fra due anime sognanti capaci di riconoscere l'incanto che le contraddistingue e che lega il loro ritmo all'unisono, a dispetto di un destino che insiste per allontanarli portandoli continuamente fuori tempo: è l'amore che ti fa saltellare per la strada in punta di piedi e che ti lascia a volteggiare senza peso, lift us up where we belong, nel cielo blu di cartapesta di quella Città delle Stelle dove ogni giorno può essere un Giorno di Sole, finché non arriva la realtà, quella vera, pronta come sempre a complicare la semplicità delle cose e a costringerti a chiederti cosa sia davvero importante, riportandoti coi piedi per terra e lasciando del blu intenso che ti avvolgeva solo un timido e malinconico bagliore; siamo tutti sognatori spezzati dalla vita e dal peso delle nostre scelte, dai frame dei film che non abbiamo vissuto e che ci passano davanti con la consapevolezza di ciò che poteva essere e non è stato perché lui, perché lei, perché loro, andiamo avanti con un sorriso amaro sul volto grati per quello che abbiamo avuto e per la luce azzurra di un ricordo che ci scalda nella solitudine.

È la dura legge del jazz, le note della nostalgia che musicano un'esistenza fatta di cose belle perché anche un po' tristi, un lietmotiv recentemente ascoltato nel Cafè Society di Woody Allen ma orchestrato con più freschezza e meno polvere dal team di Chazelle, deciso a omaggiare la tradizione del musical hollywoodiano passando dai colori e dalle geometrie degli anni '50 e '60 alle scatenate coreografie degli '80 (la spettacolare sequenza di Another Day of Sun grida Famead ogni singolo passo), creando un clash spietato fra le luci dorate della fiaba e il grigio di un presente che con ogni bolletta non pagata e ogni biglietto non staccato annebbia lentamente amore e passione.

Un omaggio al cinema e alla sua capacità di distrarci dal dolore e restituirci la meraviglia del possibile, curato nei dettagli anche grazie a citazioni collaterali a cui è impossibile non voler bene all'istante: ci sono Casablanca e Vacanze Romane, ma soprattutto la zia parigina di Mia Dolan, folle come la Catherine del Jules e Jim di Francois Truffaut nel suo lanciarsi nella Senna solo per avvertirne l'ebbrezza.


In una narrazione che procede per quadri assecondando le stagioni, la mano sicura di Damien Chazelle ci concede lunghi campi di colore e spettacolo, mettendo alla prova la coppia d'oro Emma Stone/Ryan Gosling con canzoni e passi di danza di cui non sembrano avere assoluta padronanza, ma che rende ancora più tangibile la loro normalità nella fossa dei leoni Losangelina:  il canto ruvido di lui e la sua dolcezza sulla tastiera fanno bene la loro parte, ma è la leggerezza della Stone a conquistare la scena, insieme a quell'assolo appassionato di Audition che vorrebbeessere quasi una risposta positiva all'I dreamed a Dream di Anne Hathaway in Les Miserables; sullo sfondo, vigile e sempre presente, la bella Los Angeles che fiorisce e distrugge speranze, la Città delle Stelle assediata dal traffico e dalla presunzione degli attori di Hollywood ma altrettanto capace di regalare tramonti mozzafiato e panorami da favola.

La battaglia che sul web ha visto fan e detrattori insultarsi a vicenda per avere l'ultima parola su La La Land ha consumato le energie di molti, ma alla fine dei giochi resta solo il film e ciò che sia stato in grado di lasciarci: brindiamo dunque ai sognatori, ai pasticci che combinano, agli errori che commettono e con i quali dovranno convivere tutta la vita, in un nome di un obiettivo scintillante che richiede tenacia e sacrificio, con un romanticismo che forse non pagherà tutti i conti alla fine del mese ma fa comunque bene alla salute.


Note
1)Oscarometro:
Delle ben 14 nomination ricevute, La La Land ha conquistato ben sei statuette, tutte meritate: Emma Stone andava premiata soltanto per la sequenza di Audition, anche se potendo scegliere avrei dato la statuetta alla Natalie Portman di Jackie, o se fosse stata in gara alla Amy Adams (!) di Arrival, mio film preferito in assoluto della rosa dei candidati ma con possibilità di vincere sotto zero.
La malafigura poraccia dell'errore per il miglior film è ormai storia: no, come detto La La Land per me non era comunque il miglior film e Moonlight non l'ho ancora visto, ma la scena è stata talmente crudele e la brutta figura così poraccia da avermi fatto passare la voglia vita natural durante, SHAME SHAME SHAME.


2) Il momento migliore della serata degli Oscar è stata l'esibizione di John Legend con City Of Stars e Audition, vedere per credere:




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