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Goodbye, Downton Abbey: pensieri sparsi sull'ultima stagione e sul finale della serie

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So long, Downton Abbey: dopo 6 anni di trionfi, tragedie, lacrime e sorrisi, anche la serie di Julian Fellowes ha dovuto dire addio al suo pubblico, calando il sipario sulla storia della Casa Aristocratica più famosa della tv e facendolo per fortuna alle sue condizioni. In verità, mi sento in colpa verso la famiglia Crawley e i suoi servitori: avevo promesso di recensire la serie episodio per episodio, ma per mancanza di tempo e problemi personali non sono più riuscita a stare a passo e sono dovuta venire meno alla parola data, pur continuando a seguire con amore le singole puntate ogni settimana. In ogni caso non ce la facevo proprio a lasciare andare una serie tanto importante per me come Downton Abbey senza dire qualche parola sulla sesta stagione e sullo speciale natalizio, chiamato a svolgere l'ingrato compito di mettere la parola fine alle tante linee narrative più o meno vincenti che Fellowes ha aperto ed esplorato negli ultimi anni dello show.

Avevo lasciato i miei cari personaggi in bilico sull'orlo della catastrofe quando nel quinto episodio l'ulcera di Lord Grantham aveva dato vita ad uno dei picchi più drammatici della stagione: scampato il pericolo la convalescenza di Lord G trascorre serena, con la casa aperta per la prima volta ai visitatori e tutti i membri della famiglia pronti a improvvisarsi guide turistiche per l'occasione con esiti piuttosto divertenti.

Con la questione dell'ospedale fuori dai giochi(grazie al cielo), il resto della stagione si adopera finalmente per risoluzione dell'eterno conflitto fra Mary e Edith, sotto pressione per urgenti dilemmi sentimentali e giunte a un punto di non ritorno: per Mary, combattuta fra i sentimenti per Henry Talbot e la paura di poter rimanere vedova una seconda volta (la passione per l'alta velocità di Talbot viene testata all'estremo nel penultimo episodio durante una spettacolare e tragica corsa automobilistica)impediscono a Mary di guardarsi dentro e la spingono a reagire in modo crudele e infantile verso la sorella, sul punto di realizzare il suo sogno d'amore con Bertie e acquistare niente di meno che il titolo di marchesa; dopo una pesante lavata di capo da Branson e dalla stessa Edith, il cuore di Mary può finalmente fare pace col passato (la scena al cimitero davanti alla tomba di Matthew avremmo dovuto averla molto, molto tempo fa) e sposare Talbot, completando un lungo processo di rinascita durato ben 3 stagioni. Downstairs, eventi drammatici si consumano rapidamente mentre altri personaggi viaggiano a vele spiegate verso il lieto fine: rifiutato e disprezzato da tutti Thomas tenta il suicidio, ma la cosa viene liquidata rapidamente e come mera molla narrativa per contribuire ulteriormente alla maturazione di Mary, mentre Moseley può realizzare il suo sogno di diventare insegnante e affrontare il mondo a testa alta.

Con quasi tutte le trame ancora in sospeso siamo così arrivati al Christmas Special, dove per la gioia dei fan la quintessenza del lieto fine è stata realizzata con massima consapevolezza e senza tribolazioni: grazie all'intercessione di Mary (!) Edith torna con Bertie e scende le scale di Downton finalmente in abito bianco, consapevole di aver raggiunto quella completa felicità che il destino le aveva sempre negato; il trionfo definitivo per uno dei personaggi più torturati da Julian Fellowes, protagonista di una crescita straordinaria nel corso delle 6 stagioni che l'hanno vista trasformarsi da figlia mezzana mal sopportata da tutti a donna indipendente e coraggiosa, capace di decisioni audaci e di guardare in faccia il passato imparando dai suoi errori, amata da un uomo leale e gentile ma soprattutto da un padre che ha dovuto imparare a conoscerla e ad apprezzarla davvero solo dopo aver visto quando la sofferenza l'abbia temprata e resa una persona completamente diversa.

Il riavvicinamento fra Mary e Edith e la devozione di Lord Grantham verso la figlia minore sono solo una parte della ciliegina che Fellowes ha voluto porre s questa ricca e deliziosa torta dell'addio: per Anna e Mr Bates, re e regina delle disgrazie Downstairs, il futuro è ora roseo grazie alla nascita (rapida e indolore) di un figlio maschio a consacrare la loro felicità, mentre Thomas può tornare a lavorare a Downton e prendere il posto di un Carson costretto al ritiro da improvvisi tremori, diventando un maggiordomo benvoluto e rispettato all'interno della Casa che l'ha visto crescere e che in fondo lui ha sempre amato. Happy Ending a cuore anche Isobel Crawley, sposata a un Lord Merton tornato in ottima salute nonostante le previsioni nefaste e con la benedizione di una caparbia Lady Violet, pronta nel frattempo a farsi da parte e a riconoscere i meriti della nuora Cora nella gestione del famoso ospedale della Contea.

Per alcuni, la felice conclusione dell' avventura di Downton rimane però appena abbozzata: dopo essere rientrato nella serie al solo e unico scopo di spingere Mary al cambiamento, Branson non può vantare di aver goduto dello spazio che un personaggio come il suo avrebbe meritato, ma l'idea di vendere auto insieme a Talbot funziona e anche la prospettiva di un eventuale love story con l'editrice di Edith, indipendente e dolce quanto basta per conquistare le sue simpatie; destino incerto ma probabile anche per la coppia Moseley/Baxter, tenera e adorabile sin dall'inizio, e Andy/Daisy. formatasi in brevissimo tempo ma comunque apprezzabile se non altro nella speranza che l'amore dia una sterzata al volubile caratterino dell'ex sguattera di Downton.

Nel corso di questi lunghi anni non tutto ha funzionato come avrebbe dovuto, alcune svolte troppo soap ci hanno fatto preoccupare e l'abbandono del cast da parte di pilastri della serie ha fatto di certo tremare il castello dalle fondamenta, ma grazie alla forza dei suoi personaggi, ai dialoghi sempre brillanti e allo splendore generale di ambientazioni e costumi Downton Abbey ha resistito alle intemperie diventando più forte che mai per i suoi abitanti e per tutti i suoi spettatori più fedeli. sappiamo che fuori dalle mura di Downton un'altra Guerra incombe sull'Europa, non dubitiamo che il signorino George dovrà combattere per il suo futuro come suo padre prima di lui, lo immaginiamo tornare alla Magione a guerra finita in un flash finale alla Brideshead revisited col maggiordomo Thomas ad aspettarlo, ma al momento tutto questo non ha troppa importanza: quello che conta è la felicità presente, la forza di sopravvivere al dolore passato e di risorgere dalle proprie ceneri, di cambiare assecondando il corso dei tempi senza snaturare sé stessi e rimanendo uniti, come ogni grande famiglia; la famiglia di Downton Abbey ci mancherà moltissimo, ma sappiamo già che le sue porte resteranno aperte per sempre per accoglierci degnamente nello sfarzo dei suoi grandi saloni o nel calore della sala della servitù, un piccolo pezzo di passato sospeso nel tempo capace di farci sentire a casa circondati dalle personaggi e dai luoghi che abbiamo tanto amato.


Ps: ma quanto ci mancheranno gli insegnamenti e le perle di Lady Violet? La nonna e la guida spirituale di cui tutti avremmo bisogno, mannaggia.




Sherlock Christmas Special: The Abominable Bride

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"We all have a past, Watson. Ghosts. They're the shadows that define our every sunny day."

"Il mio nome è Sherlock Holmes è l'indirizzo è 221B, Baker Street": l'iconica frase che ha segnato l'inizio del sodalizio immortale fra Sherlock Holmes e  JohnWatson e che abbiamo imparato ad associare con così tanta facilità ai moderni corridoi del Barts Hospital ritrova il suo naturale setting vittoriano grazie allo speciale natalizio di Sherlock, la celeberrima serie BBC creata da Steven Moffat e Mark Gatiss.

Ambientato nella Londra del 1895, The Abominable Bride apre le danze con una sigla old fashion per rivestire tutti i personaggi (dai protagonisti letterari a quelli divenuti canon nella serie) della rigida moda di fine diciannovesimo secolo: armato di pipa e deerstalker ma privo degli arruffati ricci del suo gemello contemporaneo, Sherlock ha la flemma e la compostezza di un novello Jeremy Brett (storico Holmes televisivo) mentre il fedele John racconta le avventure vissute con l'amico sullo Strand (dove venivano pubblicati i racconti di Sir Arthur Conan Doyle in persona) completo di baffi ed bombetta, condividendo con Holmes quella parte di cuore che il Grande Detective sembrerebbe voler dimenticare; persino lo Speedy Cafe, divenuto meta di pellegrinaggio in questi anni per ogni vero Sherlock fan che si ritrovi a passare per la capitale britannica, fa la sua comparsa nelle vesti di una tradizionalissima sala da tè.

Mentre il gioco prosegue e svelare il look dei protagonisti è un divertimento garantito( il travestimento maschile di Molly è un colpo di genio, ma la vera chicca è un Mycroft enorme e perfettamente fedele alla sua controparte cartacea) tanto quanto riconoscere ogni rimando alla mitologia del personaggio e ai romanzi stessi (oltre alle citazioni da Il Mastino dei Baskerville, i cinque semi d'arancio e l'ultima avventura, intere sequenze si ricollegano alla serie con Jeremy Brett mentre altre riprendono fedelmente alcune iconiche illustrazioni) il mistero della puntata inizia a rivelarsi assecondando la moderna frizzantezza ma anche l'amore per la tradizione a cui Sherlock ci ha sempre abituati; una donna tornata dalla tomba per vendicarsi del marito e degli uomini che l'hanno fatta soffrire, un fantasma che non può essere reale ma che sembra non offrire nessuna spiegazione razionale, un pirotecnico spettacolo allestito nel palazzo mentale che conduce verso un'unica soluzione apparentemente inconcepibile.

Dopo averci persuasi della bontà di un episodio stand alone completamente scollegato della serie, tanto per cambiare Moffat e Gatiss si prendono gioco delle nostre aspettative divertendosi a capovolgerle e a confondere il pubblico, stordendolo con inattese rivelazioni a incastro e trascinandoci nel bel mezzo di un episodio che usa l'anomalia temporale come pretesto per creare un divertissement stratificato e ambizioso. Sfruttando il gusto per il gotico e il grottesco che l'opera originale non ha mai disdegnato, l'avventura della sposa abominevole fa il suo corso e nasconde sotto il velo il volto di una donna forte e determinata, degna del rispetto e della considerazione criminale e umana che non solo la letteratura e la storia ma anche lo stesso Sherlock(eccezion fatta per "La Donna" Irene Adler) le hanno troppo spesso negato nel passato e nel presente: un tocco di classe in un episodio che riaccende la giostra giusto per farci girare in tondo e proiettarci con slancio nell'attesa della quarta serie, ma che sa anche portare a casa il risultato con un intrattenimento in grande spolvero e mai spaventato dall'opportunità di sperimentare e di mettersi alla prova; per un Detective troppo avanti per il suo tempo non potremmo chiedere di meglio.


Leggi su cinefilos/serietvSherlock – The Abominable Bride recensione dello speciale natalizio

The stage is set, the curtain rises: Welcome 2016

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Hello, caro 2016! Sarai un buon anno? Ti comporterai bene e farai andare tutto come deve andare come nella canzone di MaxPezzaliana memoria? Dato che hai appena aperto le danze è un po' presto per fare bilanci, ma sul piano cinematografico non c'è dubbio che il carnet di film che intendi proporci è davvero notevole. Usciranno tutti in Italia? Come spesso succede dalle nostre parti non ne abbiamo la certezza, ma nel frattempo godiamoci l'attesa per i 10 titoli (più 7 titoli bonus) che potrebbero essere le perle di quest'annata:

-Carol, Todd Haynes



















Dal romanzo di Patricia Highsmith, una storia d'amore fra due donne nell'America degli anni '50. Rooney Mara, Cate Blanchett, la grazia del Todd Haynes di Far From Heaven. Data di uscita: 5 gennaio.

-The Danish Girl, Tom Hooper



















Un Eddie Redmayne più disperato che mai, una meravigliosa Alicia Vikander, le musiche belle in modo assurdo di Alexandre Desplat. Data di uscita: 18 febbraio.

-Macbeth, Justin Kurzel



















HAIL MACBETH, HAIL SHAKESPEARE, HAIL FASSBENDER (e Marion Cotillard)! Data di uscita: 5 gennaio.

-Suffragette, Sarah Gavron



















Un film bellissimo, tosto e fiero come le sue protagoniste(l'ho già visto mentre ero in UK e potete leggere la mia recensione qui) . Data di uscita: 3 marzo.

-Anomalisa, Charlie Kaufman



















Anime perse in stop motion, dirette da Charlie Kauffman (Eternal Sunshine of the Spotless Mind).Data di uscita: 25 febbraio.

-Brooklyn, John Crowley


Mentre noi abbiamo finalmente imparato a pronunciare il suo nome impronunciabile, Saoirse Ronanè cresciuta, pronta a emigrare negli States dall'Irlanda degli Anni 50' in una sceneggiatura scritta da Nick Hornby. Data di uscita: 4 febbraio.

-The Revenant, Alejandro G. Iñárritu



















DATE.A.LEO.IL.SUO.BENEDETTO.OSCAR. Data di uscita: 14 gennaio.

-High Rise, Ben Wheatley



















Tom Hiddleston. Un Condominio non esattamente cristallino. Ho già detto Tom Hiddleston? Data di uscita: non pervenuta, ma c'è sempre speranza.

-I Saw The Light, Mark Abraham


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Tom Hiddleston! Di nuovo! Niente condomini stavolta, solo la musica country di Hank Williams:se ci va bene, potrebbe essere un nuovo Walk The Line. Data di uscita: non pervenuta, ma c'è sempre speranza.

-The BFG, Steven Spielberg












IL Grande gigante gentile di Roald Dahl diretto da Zio STEVEN SPIELBERG (che torna a fare film per ragazzi dopo un'eternità, CUORICINI). Plus, il gigante sarà quel gigante d'attore di Mark Rylance (Bridge of Spies, Wolf Hall). Data di uscita: ancora non pervenuta, ma Zio Steven arriva sempre.

Un po' meno attesi ma attesi comunque:

-Jobs, Danny Boyle
-The Hateful Eight, Quentin Tarantino
-Spotlight, Tom McCarthy
-The Little Prince, Mark Osborne
-Snowden, Oliver Stone
-Doctor Strange, Scott Derrickson
-Captain America: Civil War, Anthony and Joe Russo


Well, The stage is set, the curtain rises, we are ready to begin...welcome 2016!

Carol

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"No other love can warm my heart
Now that I've known the comfort of your arms
No other love, oh the sweet contentment
That I find with you everytime, everytime

No other lips could want you more
For I was born to glory in your kiss, forever yours"

(No Other Love, Joe Stafford)

Chissà perché ci ostiniamo sempre a volerci innamorare d'estate: stiamo tutti lì a costruire romantiche fantasie per tramonti infuocati, indolenti giornate scottate e salmastre e lunghe passeggiate sotto cieli limpidi e stelle cadenti; chissà perché, quando avvolti in cappotti e cappelli a osservare le vite degli altri scorrere attraverso le finestre dei locali, coi guanti di pelle che ci stringono le dita mentre vorremmo che a farlo fosse qualcun altro e le luci natalizie che si accendono sulla via riempiendo anche solo per un istante il vuoto che ci siamo scavati dentro, il bisogno di calore che ci lascia soli sulle strade ghiacciate dell'inverno ci affama di una voglia d'amore ancora più testarda e irresistibile.

Di una passione invernale racconta Carol di Todd Haynes, fratello di sangue dello splendido Far From Heaven con Julianne Moore con cui condivide quegli anni 50' così impeccabili e infrangibili, dove le gonne a ruota e i cappellini coordinati si cucivano addosso alle donne con la stessa facilità del grembiule da cucina con cui ogni brava moglie doveva adoperarsi al meglio per accogliere a casa degnamente il proprio prezioso marito, un bel sorriso e poco altro a riempire una vita cristallina come una vetrina dei grandi magazzini; una vita perfetta, tutta casa, famiglia e buona società, che Carol Aird aveva provato ad avere recitando al meglio il ruolo che le era stato affidato, ma che alla fine non è più riuscita a trattenere oltre lo sguardo sfuggente di chi sa già cosa sta cercando disperatamente di trovare tra la folla: così arriva Therese, giovane commessa ancora inesperta del cuore ma capace di osservare con attenzione il mondo attraverso l'obiettivo della sua macchina fotografica, l'istante di un'occhiata rubato al caos dello shopping natalizio e i guanti di Carol dimenticati sul bancone e da dover restituire, l'opportunità di un nuovo incontro degna del più classico dei romanzi vittoriani.


La bellezza di Carol di Todd Haynes è tutta qui, nel gioco di sguardi e carezze che le due donne possono permettersi di celare in bella vista, un berretto screziato a strisce gialle e rosse a minacciare gli equilibri color pastello di una società che nessuno dovrebbe mai sognarsi di sovvertire e men che meno una donna rispettabile: per non restare rinchiuse nelle Case di bambole che dagli scaffali del negozio di giocattoli si vantano con orgoglio del loro conservatorismo immacolato(quale occasione migliore delle feste natalizie per erigere un monumento alla famiglia americana?) c'è solo il peregrinare da una stanza d'albergo all'altra, alla ricerca di quella solitudine che consente agli innamorati di studiarsi prima di abbandonarsi all'attrazione dei corpi e lasciarli finalmente confondere, nudi e sfocati senza più pellicce e orecchini di perle a mantenerli nei ranghi.

La macchina da presa gira da Carol a Therese con classe e raffinatezza, riprende gli spazi vuoti di comparse senza volto, aspetta dietro ai vetri delle tavole calde e delle macchine che scorrono via senza risposte, sigaretta dopo sigaretta, una per ogni occasione perduta: è il potere dell'immagine, l'incanto che sposa consapevole la felicità della citazione (Brief Encounter di David Leanè omaggiato non solo nella sequenza iniziale e finale ma anche nella scelta nel treno, se pur giocattolo, come galeotto responsabile dell'amore fra le due) e la fa propria per raccontare di sentimenti fiammanti e paralizzati dal destino, del coraggio di emergere a costo di perdere tutto in un mondo di uomini che prova ancora a vendere la libera scelta di una donna come un momento di passeggera fragilità, di un percorso di maturazione e affermazione personale che consacra la Therese di Rooney Mara, nonostante l'eponimo titolo e la straripante personalità del personaggio di Cate Blanchett, come protagonista assoluta; solo la scintilla nell'occhio di una fotografa, vestita come una novella Audrey Hepburn e resa ancora più spavalda dall'accompagnamento della straziante musica di Carter Burwell (qui molto affine al miglior Philip Glass), per trovare in mezzo alla folla l'amore che non si può perdere e affidarlo al cinema, perché possa finalmente vivere in un'alba perpetua.


Note:

1)Per la Blanchett è il secondo adattamento da un romanzo di Patricia Highsmith, dopo il caro vecchio Il Talento di Mr Ripley. Mi piace pensare che in un universo parallelo l'adorabile e frizzante Meredith Logue e Carol Aird siano state almeno cugine di primo grado;


2)Goldenglobometro/Oscarometro: il fatto che sia tornato all'asciutto dai Golden Globe non fa sicuramente ben sperare per qualche statuetta, ma un po' di nomination arriveranno senz'altro (altrimenti li picchio) e qualunque premio sarà ben accetto. Solo un appunto: perchè accidenti dovete fare passare Rooney Mara come non protagonista quando è chiaramente la vera protagonista del film? Se è una tecnica per aumentare le sue possibilità di vittoria ci posso stare, altrimenti, boh, I DON'T UNDERSTAND, ILLUMINATE ME PLEASE.

Always Alan, after all this time.

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Alan Rickman non c'è più. L'annuncio passa per caso, silenzioso e agghiacciante mentre stavamo tutti pronti ad aspettare le nomination all'Oscar e a fare previsioni, lanciando invettive contro il mocio di Jennifer Lawrence e incrociando le dita per Leonardo DiCaprio. 
Solo il gioco della stagione dei premi, la gara a vedere un film dietro l'altro per stare al passo e sbagliare pronostici: tutto andato di traverso, irrimediabilmente e a ragione, perchè la morte di Alan Rickman è di quelle che fanno male, malissimo. A pochissimi giorni di distanza da David Bowie perdiamo un altro grande nome di quelli che hanno fatto storia, anche se per i media la percezione dell'evento è inevitabilmente (lo so che Bowie era Bowie) più pacata e contenuta. Anch'io ho la mia personalissima hit di canzoni favorite del Duca Bianco, ma non posso negare di non essere mai stata la sua fan numero uno e di avere sentito invece un gran brutto vuoto dentro, un buco di silenzio reso ancora più profondo dalla casa immobile e temporaneamente deserta, dopo aver appurato che la scomparsa di Alan non era solo una bufala; perchè anche se quando l'avventura di Harry Potterè iniziata avevo già 14 anni anch'io sono cresciuta con lui e con la sua generazione, a sognare scale che amassero cambiare e passaggi segreti al corridoio del terzo piano, ad aspettare la lettera per Hogwarts per poi muovermi fra i suoi corridoi come se fosse casa mia, impaurita e affascinata dalla personalità di quel Professor Piton che sembrava tanto nero e oscuro, con le sue occhiate fulminanti e un'inclinazione al disprezzo e alla vendetta privata degna del ringhio del mio Professore di Greco e latino nelle sue giornate peggiori: quanti insulti dopo la lettura del Principe Mezzosangue e quante richieste di Perdono dopo i doni della Morte per il personaggio più bello e sorprendente nell'universo creato dall'ingorda J.K. Rowling, un'imperturbabile maschera di tunica e capelli corvini che Rickman ha saputo raccontare sul grande schermo con tutta la grandezza, l'eleganza e la tragicità che l'hanno sempre contraddistinto. 


Una nota di malinconia, sempre presente in quegli occhi sottili che sembravano prestarsi così bene a ruoli negativi e ambigui ma che sapevano sposarsi con altrettanta decisione a sorrisi rari e preziosissimi: villain di notte ed eroe romantico di giorno, con quel colonnello Brandon che illuminava di sole la versione di Ragione e sentimento diretta da Ang Lee, il mio primo vero contatto con Jane Austenanche se all'epoca non mi rendevo conto di quanto potesse essere preziosa una cassetta in lingua originale da guardare obbligatoriamente a scuola durante l'ora di inglese.


Di tutti i personaggi memorabili da lui interpretati, passando dal perverso Giudice Turpin di Sweeney Todd all'Alexander Dane di Galaxy Quest fino al marito malato e coscientemente tradito del raffinato Una Promessa di  Patrice Leconte, lo Sceriffo di Nottingham di Robin Hood: Principe dei Ladriè quello a cui voglio bene più di tutti: ci guardavamo la cassetta in continuazione, io e la mia amichetta delle elementari, finendola e rimettendola da capo nella sua minutissima stanza da letto prontamente fornita di videoregistratore, coprendoci gli occhi nelle scene dove la Strega di Geraldine Chaplin arpionava con unghie affilate schifezze di ogni genere per fare le sue predizioni, ma sempre determinate a correre il rischio ad ogni singola visione come se fosse il massimo della trasgressione audiovisiva (che ne sanno i pischelli di oggi di cosa voleva dire avere 8 anni negli anni 90'?). Divertente, completamente pazzo e allucinato, pronto a strappare elegantemente il cuore al suo nemico con un cucchiaio perchè con un pugnale sarebbe stato tedioso, come avrei scoperto anni dopo lo Sceriffo era soprattutto frutto dell'estro di Alan Rickman: tanto c'avevamo Luca Ward, e chissenefregava allora dell'accento americano di Kevin Costner.



Se ne è andato così un altro pezzo della mia infanzia, un altro attore entrato a far parte di me senza chiedere niente in cambio ma dandomi tutto ciò che poteva, per il tempo di un lungometraggio andato a incastrarsi felicemente in un passato che ogni giorno si fa ancora più remoto, spinto da quella meravigliosa e maledetta clessidra del tempo che gioca con la nostra esistenza senza controllo né preavviso, ma che si tiene insieme con forza grazie ai ricordi più o meno memorabili che hanno lastricato il sentiero fino ad oggi; un'altra memoria da custodire, triste come quando guardandoti allo specchio a 12 anni sei scoppiata a piangere perchè hai realizzato improvvisamente che non saresti vissuta in eterno, e felice come quando hai capito che ogni singolo fotogramma della storia vale e varrà sempre la pena: per sempre, Alan, dopo tutto questo tempo. 


Il tramonto di Re Ragnar? Arriva la quarta stagione di Vikings

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Agricoltore visionario, Conte spietato, sovrano ambizioso ma pur sempre uomo, reso fragile dal dolore e dalla sofferenza tanto quanto dal desiderio di vendetta e dal bisogno d'amore: il fascino della figura di Ragnar Lothbrok è sempre stato parte integrante del successo di Vikings, la serie di History Channel che ha saputo dare nuovo lustro al genere del dramma storico e che ora si prepara a varcare i cancelli della sua quarta stagione con ben 20 episodi, un azzardo che potrebbe definitivamente consacrarne il successo o segnarne l'inizio della fine.

Difficile comprendere il motivo di questa scelta, ma pur non dubitando che l'arco narrativo offerto dalla penna di Michael Hirst sarà succoso e affascinante come al solito, la paura più grande per gli spettatori più fedeli è che il momento dell'addio a Re Ragnar, già ferito fisicamente e psicologicamente nella scorsa stagione, si stia avvicinando per lasciare posto alla nuova generazione e riavviare la quinta stagione con personaggi e storie del tutto nuove.

La perdita di un intermediario come Athelstan (George Blagden), introdotto ad hoc per costruire il ponte naturale fra l'occhio dello spettatore e la cultura vichinga è uno strappo che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui la serie è stata concepita fino ad oggi: placata la foga dello spettacolare assedio a Parigi, risolto dal Re Danese con uno stratagemma degno di Ulisse in persona, la mancanza di uno straniero che sappia comprendere e guardare oltre le mere ambizioni di conquista di Ragnar e leggere da estraneo la modernità del suo spirito è necessaria: la serie sembra intenzionata a rimediare introducendo Yidu, una donna arrivata dall'oriente che potrebbe fornire i presupposti per un nuovo interessante scontro di culture.

Dopo aver allungato la sua ombra sulla capitale del Regno dei Franchi, avevamo visto Ragnar tornare in patria e lasciare indietro Rollo(Clive Standen), quel fratello che superati vecchi rancori e invidie era riuscito finalmente a dimostrargli la sua lealtà e fedeltà incondizionata: favorita dalla profezia dell'indovino, l'ambizione di Rollo ha tuttavia trovato terreno fertile nell'opportunità di una nuova alleanza col nemico attraverso le nozze con Gisla (Morgane Polanski), intraprendente e determinata figlia del fragile Re dei Franchi; primo fra i vichinghi ad essere battezzato per mera strategia e senza alcuna intenzione di rinunciare alla gloria di Odino, nel corso della quarta stagione il Guerriero paragonato a un Orso per forza e ferocia intraprenderà un percorso di cambiamento inatteso e senza ritorno, rinunciando ai suoi lunghi capelli e indossando le vesti dei Franchi per diventare finalmente il Duca di Normandia, personaggio storicamente esistito e antenato di Guglielmo il conquistatore. Difficile dire al momento quanto sarà importante il legame con la Principessa Gisla, ma a giudicare dagli sguardi elettrici scambiati sui bastioni e a dispetto dell'apparente disgusto di lei il Guerriero non resterà di certo indifferente troppo a lungo alla sua nuova giovane sposa.

Fra i personaggi più amati dello Show, Lagertha(Katheryn Winnick) continuerà invece a combattere per riconquistare il suo feudo, pur avendo ceduto temporaneamente alle lusinghe del traditore Kalf, consapevole che le nefaste parole dell'indovino non lasciano ben sperare in una risoluzione positiva: in ascesa dovrebbe essere invece il percorso di Bjorn Ironside (Alexander Ludwig) finora coinvolto solo in storie d'amore non particolarmente riuscite e adesso destinato a dimostrare il proprio valore come leader, in una scena di combattimento e resistenza contro un orso che data la moda del momento (il ricordo di The Revenant è ancora freschissimo) non potrebbe essere più attesa e chiacchierata. 
Conquistare la piena fiducia del padre e divenirne un degno erede però non sarà facile:  a Kattegat, l'aggravarsi delle condizioni di salute di Ragnar inasprirà i rapporti fra i membri della famiglia risvegliando inaspettatamente il desiderio di Aslaug(Alyssa Sutherland) di governare per proteggere i suoi figli e strappare a Bjorn la successione, riportando in scena quel misterioso Vagabondo che nella scorsa stagione aveva saputo guarire la pena del piccolo Ivar e conquistare le grazie della bella e solitaria Regina; persino il Re di Norvegia Harold Finehair, nuovo personaggio interpretato da Peter Franzén, tenterà di approfittare della situazione per estendere le sue mire sulla Danimarca. 

Con una vendetta ancora tutta da consumare (Floki è ben consapevole di non avere alcuna speranza di redenzione), diversi fronti nemici da fronteggiare (oltre al Regno di Franchia e di Norvegia c'è pur sempre il Wessex col carismatico-e a volte esilarante- Re Ecbert, insieme alla bizzarra Regina di Mercia Kwenthrith che vanta addirittura di aver concepito un figlio con Ragnar in persona durante la sua permanenza in Inghilterra) e la salute e l'umore alquanto compromessi, il futuro del sovrano vichingo più amato sembra essere seriamente in pericolo; perchè l'indovino risponda a tutte le nostre domande sarà necessario attendere il 18 febbraio, primo di venti appuntamenti che vedranno la serie dividersi in due tranche da dieci episodi secondo la tradizione delle serie americane più popolari e agguerrite: un altro grande viaggio, forse l'ultimo, per un uomo grande e imprevedibile.

Leggi su cinefilos/SerietvIl tramonto di Re Ragnar? Arriva la quarta stagione di Vikings

Poet's Corner No. 28

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Dans le vieux parc solitaire et glacé
Deux formes ont tout à l'heure passé.

Leurs yeux sont morts et leurs lèvres sont molles,
Et l'on entend à peine leurs paroles.

Dans le vieux parc solitaire et glacé
Deux spectres ont évoqué le passé.

- Te souvient-il de notre extase ancienne ?
- Pourquoi voulez-vous donc qu'il m'en souvienne ?

- Ton coeur bat-il toujours à mon seul nom ?
Toujours vois-tu mon âme en rêve? - Non.

Ah ! les beaux jours de bonheur indicible
Où nous joignions nos bouches ! - C'est possible.

- Qu'il était bleu, le ciel, et grand, l'espoir !
- L'espoir a fui, vaincu, vers le ciel noir.

Tels ils marchaient dans les avoines folles,
Et la nuit seule entendit leurs paroles.

§§§

Nel vecchio parco solitario e ghiacciato
due figure poco fa sono passate.

Spenti hanno gli occhi, le labbra senza lena
e le loro parole s'odono appena.

Nel vecchio parco solitario e ghiacciato
due fantasmi hanno evocato il passato.
- Ricordi la nostra estasi d'un tempo?

- Perché mai volete che mi torni in mente?
- Ti batte ancora il cuore al solo mio nome?
Vedi ancora in sogno la mia anima? - No.

Ah! i bei giorni di felicità indicibile
che univamo le nostre bocche! - È possibile.

- Che cielo azzurro, che speranza infinita!
- Sconfitta, verso il cielo nero è fuggita.

Così andavano per le avene incolte,
le loro parole udì solo la notte.

Paul Verlaine
Colloque sentimental


Vikings 4x01: A Good Treason

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Amore coniugale, amore filiale, amore fra amici e amore fra fratelli: ogni possibile declinazione del sentimento sembra destinata a soccombere miseramente nella premiere della quarta stagione di Vikings, che col suo titolo A Good Treason guarda alle spregevoli intenzioni dei personaggi con l'indulgenza con cui ogni traditore, avendo a cuore il proprio interesse e la necessità di sacrificare tutto alla sua ultima giustizia, prova a salvare sè stesso.

Si comincia con Aslaug, determinata a interrogare l'indovino sulla possibilità che una donna possa governare da sola auspicando che la fine di Ragnar stia per giungere a causa della malattia che ha portato con sè da Parigi: tornato per essere il degno successore del padre nella leadership del suo popolo, Bjorn decide di fare arrestare platealmente Floki per l'assassinio di Athelstan, ma quando Ragnar risorge dal suo male dimostrando di non essere ancora pronto per congedarsi dalla storia il suo disappunto nei confronti del figlio è palese.
Scollegare il personaggio di Bjorn da vecchie beghe sentimentali e concentrarsi sulla sua crescita per diventare Re potrebbe essere la scelta narrativa di cui il personaggio ha davvero bisogno, anche se questo significherà vederlo diventare sempre più simile a suo padre nel recidere legami familiari non più necessari alla sua causa; difficile definire invece il destino del sovrano, più che mai sospeso fra le proprie radici norrene e il bisogno di garantirsi l'ingresso nel Walhalla e l'attrazione irresistibile per le profanità cristiane e ignote che Athelstan ha così profondamente radicato nel suo animo.

Pur funestato da una profezia che come una spada di Damocle pende costante sulla sua testa, il futuro di Lagertha sembra per il momento al sicuro grazie all'intervento di Kalf, disposto a condividere con lei il governo del Feudo a ragione del sostegno ricevuto durante la campagna Parigina: dopo 3 stagioni, la Guerriera interpretata da Katheryn Winnick continua a dimostrarsi uno dei personaggi femminili più carismatici e interessanti delle serie e non solo, pronta a sporcarsi le mani per difendere la propria indipendenza ma altrettanto a stringere nuove improbabili alleanze, quando queste le promettano di conservare quanto faticosamente conquistato in anni di battaglie contro un mondo di uomini.

La chiusura dell'episodio appartiene comunque a lui, uno dei personaggi più amati della serie e che pur avendo iniziato da traditore era riuscito a riconquistare la fiducia del re dimostrandosi degno della più totale fiducia: Rollo sposa Gisla assicurandosi il suo posto fra le file dei Franchi (in una scena che ha quasi del comico considerando l'ostinazione della Principessa e la mimica facciale di Clive Standen) ma la freddezza con cui dimostra di aver fatto una scelta senza ritorno riguardo al suo futuro e alla sua lealtà parla da sola; il tempo di abbandonare l'ombra di Ragnar è finalmente arrivato.


The Revenant vs Steve Jobs: fra fiumi di parole e sovrumani silenzi, nel bel mezzo di un gelido inverno

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"Qualsiasi racconto tradizionale di argomento religioso o eroico, nel quale i fatti e i personaggi, sia immaginari sia desunti dalla storia (ma soggetti in questo caso a un’amplificazione fantastica che altera il dato storico), sono in genere collegati con luoghi e tempi determinati": dritta dritta dalla Treccani, questa definizione di leggenda si mette ben volentieri a servizio del mezzo cinematografico e dei suoi snodabili strumenti per consacrare il racconto di due uomini le cui vite sono state unite sotto la corona d'alloro del mito anche se per ragioni completamente differenti; Hugh Glass, guida delle montagne il cui spirito è rimasto intrappolato fra i ghiacci di un America dimenticata da Dio e dall'umanità stessa, e Steve Jobs, stella del ventesimo secolo strappata via alla vita troppo presto per non diventare un'icona assoluta da venerare, pronto ad ispirare tanti giovani col suo stay hungry stay foolish e a tenere viva la fiamma del proprio estro con tutta l'energia e ostinazione di chi è certo di avere sempre la vittoria in tasca.

Interpretati sul grande schermo rispettivamente da Leonardo Di Caprio in The Revenant e da Michael Fassbender in Steve Jobs, i nostri due protagonisti sono talmente distanti e polari che accostarli sembrerebbe un azzardo troppo grande e insostenibile: eppure, lasciando da parte la corsa all'Oscar e il duello che vedrà probabilmente trionfare DiCaprio dopo anni di prese in giro e cocenti delusioni (nessuno degli altri candidati, Fassbender a parte, è davvero in grado di contrastarlo quest'anno nella corsa alla statuetta) è la stessa leggenda e la sua capacità di vivere attraverso il potere del racconto, orale e scritto prima, cinematografico poi, a trasfigurare le loro vite e a prestarle al grande schermo per una trasposizione che sappia rendere loro la giustizia che meritano, consegnando il proprio lascito alla clemenza della nostra memoria e alla naturale deformazione che l' immaginazione non può fare a meno di produrre.

Diretto da Alejandro González Iñárritu dopo l'exploit dell'acclamatissimo BirdmanThe Revenant non è un film meno ambizioso e compiaciuto del suo predecessore: nel Missouri del primo '800 i Mercanti di pelli sopravvivono a una vita di Frontiera respingendo gli attacchi dei Nativi con la stessa determinazione con cui l'inverno distrugge il loro spirito giorno dopo giorno, abbattendo il ricordo delle persone amate sotto i colpi del vento gelido e uccidendo un Dio che nella Terra di Nessuno assume la forma di quelle poche, provvidenziali creature viventi che la natura sceglie di risparmiare al freddo, destinate ad essere squartate e divorate dall'uomo con la furia delle Bestie.

Un mondo di dolore contro il quale Hugh Glass, ormai legato a quelle terre da un vincolo di sangue e dal fantasma del ricordo di un amore perduto combatte dimostrando una capacità di resistenza quasi disumana: abbandonato nella foresta in difficoltà dopo aver subito l'attacco di un orso e privato di tutto ciò che aveva da un antagonista che non aveva mai conosciuto altro che la durezza di una vita di stenti, Glass attraversa la sterminata crudeltà della natura risorgendo dalla sua stessa carne martoriata e guardando alla vendetta come meta ultima del suo viaggio; a condurlo oltre il limite dell'umano sentire e a dargli la forza di sopravvivere peripezia dopo peripezia sono però le visioni oniriche e le allucinazioni che lo costringono a guardare attraverso gli elementi della Terra, dell'acqua e del cielo alla ricerca di una divinità che non può davvero aver abbandonato i suoi figli in quel silenzio assordante e senza pace.

Lasciati indietro i dialoghi taglienti di Birdman Iñárritu mette le sue capacità a servizio di una storia che scarnifica all'osso le parole di cui ha bisogno e chiede al suo pubblico una pazienza non comune; illuminando di mera luce naturale le ombre ancestrali di uomini che come animali non possono fare altro che devastare e distruggere, nutrirsi di carne cruda e strisciare lungo le rive dei fiumi, uccidere perchè il più forte possa avere la meglio nel branco e sopprimere i più deboli, la fotografia di Emmanuel Lubezkiè un incanto che stordisce e confonde meravigliosamente, ma i meriti del regista messicano sono comunque lì perchè chiunque possa vederli: la vertigine che ci abbatte contro i fiumi scroscianti e i manti innevati, gli schizzi di sangue che sporcano la camera e i primi piani che ci incollano alle ferite e agli animali morti fino a farci sentire l'odore delle loro carni putrefatte sono tutta opera sua, in una deriva di Malickiana memoria preoccupata dal bisogno di trovare una via di comunicazione col pubblico molto di più di quanto lo sia negli ultimi tempi il regista di The Tree of Life.

La cruda verosimiglianza della messa in scena rischia di perdere qualche punto a causa della resistenza incontenibile che Glass manifesta contro i suoi affanni più letali, ma alla fine poco importa: la realtà si mischia con la finzione, la leggenda sfuma la verità e dà al suo l'eroe l'opportunità di trascendere i suoi stessi limiti, fino allo scontro finale che concluderà il suo calvario nel più classico e ferino dei modi possibili; Leonardo Di Caprio e Tom Hardy sono due belve purosangue pronte sfidarsi e a sbranarsi a vicenda con la rabbia più becera e assistere allo scontro è per noi un privilegio.


Al riparo da fiumi gelati ma immerso in un fiume di parole che lascia quasi senz'aria, lo Steve Jobs di Danny Boyle resta lontano dagli spazi aperti preferendo chiudersi nel Backstage in attesa del lancio di alcuni dei prodotti che più sono stati segnati dall'estro di Jobs, nel bene e nel male: una gestazione lunga e sofferta per il film che ha visto saltare la testa di David Fincher e subentrare il regista di Trainspotting, nel bel mezzo del fitto scambio di email hackerate che ha scatenato lo scandalo della Sony Pictures e fatto sorgere più di un dubbio sul risultato finale.

Alla fine, senza bisogno di scomodare la tristemente nota pellicola con protagonista Ashton Kutcher, il nuovo Steve Jobs è una piece teatrale di grande finezza costruita interamente sulla danza delle parole della penna di Aaron Sorkin e sulla bravura dei suoi interpreti, ma anticlimatica e poco galvanizzante a ragione di un regista quasi del tutto non pervenuto e di una narrazione episodica originale e ben cesellata, ma non abbastanza da chiudere il cerchio in modo soddisfacente.

Come in The Social Network, la sfida è sviscerare un'icona che ha fatto del pratico e frenetico mondo della tecnologia moderna il suo regno e il suo parco giochi preferito, guardando dentro la sua vita solitaria e scomponendone il puzzle degli affetti per scoprire che tipo di uomo si nasconda davvero dietro ad una grande idea originale. Fra gli anni '80 e il 2000, il genio si carica per affrontare il suo pubblico e prende dai pochi che lo amano qualunque cosa gli sia utile, muovendosi dietro le quinte del palcoscenico come nel labirinto dei circuiti di quei sistemi che si appresta a promuovere con tanto carisma; la leggenda vive ancora, ma perde il suo alone di santità restituendoci un uomo dalla personalità ingombrante e sgradevole, pronto quasi mai a dare e sempre a ricevere, il Direttore d'Orchestra che si gode gli applausi e le lodi ma non si ferma mai a ringraziare i musicisti.

Il destino del film è interamente nelle mani di Aaron Sorkin e dei suoi attori: versatile come sempre nel calarsi nei panni di un personaggio complesso e irriverente pur non condividendo con quest'ultimo alcuna somiglianza fisica (cosa che aveva in un primo tempo fatto guadagnare qualche punto alla versione di Kutcher), Michael Fassbender duetta con una Kate Winslet appesantita dal look vintage ma impeccabile nel ruolo della dolce e sempre leale assistente Joanna, sfida in singolar tenzone un tragico Jeff Daniels in una delle scene più estenuanti ed efficaci del film e calpesta senza pietà l'amor proprio dello Steve Wozniak di Seth Rogen, l'ex amico e collaboratore condannato a rinunciare a qualunque pubblico riconoscimento perchè il gran Steve Jobs possa risplendere da solo come un Leonardo Da Vinci dei nostri tempi.

La mancanza della mano ferma di Danny Boyle, appena accennata nelle scene di transizione fra un anno e l'altro e praticamente assente nel resto della pellicola si fa però sentire parecchio: Steve Jobs va avanti col pilota automatico rinunciando a lasciare davvero il segno nell'immagine come aveva fatto The Social Network seguendo la figura ancora acerba di Zuckerberg mentre attraversava malinconica il Campus a tarda sera, abbattendo l'orgoglio degli arroganti gemelli Winklefloss durante l'estenuante gara di canottaggio dell'università o stando addosso al magnetico Sean Parker mentre tentava con affascinanti offerte il caro Mark nella bolgia di luci e caos di una discoteca alla moda; resta la fiumana del testo di Sorkin, l'originalità di un impianto che sfida la tradizione ritagliandosi pochi istanti per capire debolezze e punti di forza del mito, la luce negli occhi di un protagonista che con la consapevolezza di chi accetta in fine di "essere fatto male" riesce a farsi amare anche a fronte di un carattere ingestibile e scostante, la nostalgia per quel mattoncino del walkman che ci portavamo dietro con insistenza e selezionando accuratamente le canzoni da ascoltare.

Riuscirà Leonardo a vincere l'agognato Oscar o Michael ha ancora qualche speranza? Dopo la carica della performance di The Wolf of Wall Street sfidare la sorte avversa con un personaggio che non apre quasi mai bocca per vivere unicamente in una performance fisica e viscerale è un paradosso, ma quest'anno per il caro Leo sembra davvero la volta buona. Decidere quale leggenda sia stata meglio raccontata e quale pellicola debba spuntarla è questione molto più spinosa: The Revenant e Steve Jobs non sono film perfetti e il duello non può concludersi decretando che lo script e i suoi interpreti debbano essere più importanti di una precisa impronta autoriale o che uno strabiliante apporto tecnico debba essere più potente del peso delle parole e dell'intuizione narrativa che le sostiene.
Il cinema è equilibrio e disequilibrio, combinazione di elementi potenti e apparentemente necessari in egual misura, una grammatica di regole e schemi che la creatività piega a suo piacimento per portare sul grande schermo la propria visione e sottoporla al vaglio dello spettatore, giustamente esigente e mal disposto ad accontentarsi in quel complicato e personalissimo viaggio chiamato apprezzamento.

Deponiamo dunque le armi, almeno per stavolta, per arrenderci senza rimpianti a due lavori lontanissimi ma entrambi in grado di arrivare al cuore del Mito in modo audace e mai convenzionale, entrambi forti delle performance di due Lead straordinari e di grandi comprimari ed entrambi persi nell'ambizione con cui hanno scelto di affrontare la materia trattata: entrambi cinema, estremo ed estenuante, imperfetto e azzardoso come solo la creatività umana sa essere.



Vikings 4x02: Kill The Queen

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Dal Wessex alla Mercia, dalla Danimarca alla Francia: gli scenari di Vikings si ampliano sempre di più e le trame dei personaggi si moltiplicano ai nostri occhi, allontanandosi da Ragnar Lothbrok e rendendo la sua leadership apparentemente ben salda sempre più incerta nel futuro della serie.

Concentrato sulla sua vendetta personale nei confronti di Floki per la morte di Athelstan, Ragnar manda il giovane figlio Ubbe, primogenito di Aslaug, a cercare l'ex amico fuggito dalla sua prigionia: pensando a come tutto era iniziato e a come la lucida follia di Floki il costruttore di navi era riuscita ad assecondare la volontà visionaria del contadino Ragnar è incredibile quanto i rapporti fra i personaggi siano cambiati fino ad arrivare a un punto di rottura senza ritorno.

La cattura di Floki, sottoposto ad una tortura subdola e "sofisticata" che trae origine proprio dalla mitologia norrena si accompagna ad altri eventi che non lasciano presagire nulla di buono per il nostro re: una terribile disgrazia si abbatte su Helga, caduta in miseria e priva di qualunque sostentamento per affrontare il freddo e la fame dell'inverno, facendo sentire Ragnar responsabile per non aver fatto abbastanza nei confronti della donna e della sua bambina innocente, risvegliando nella nostra memoria il tragico ricordo del destino della piccola Gyda.

Come se non bastasse, Aslaug continua a dimostrare di non avere nessuna intenzione di assecondare oltre il volere del marito rinfacciandogli come le sue simpatie per il Monaco Cristiano l'abbiamo per sempre compromesso: ad attenderla c'è uno schiaffo potente che dovremmo condannare senza riserve e che invece finisce per guadagnarsi la nostra simpatia e soddisfazione, a ragione di un personaggio che non ha mai brillato per carisma e ha sempre sfigurato agli occhi di Lagertha, stranamente assente da quest'episodio; solo in mezzo alla neve, Bjorn si prepara invece ad affrontare la sfida più importante della sua vita.

Nel Wessex, le ambizioni di Re Ecbert portano Aethelwulf in Mercia per detronizzare definitivamente la nuova regina Kwenthrith, regalandoci l'opportunità di godere di alcune scene di battaglia come sempre magistralmente realizzate: in assenza del figlio, Ecbert riprende le manovre per sedurre la nuora Judith, assecondando il suo desiderio di dedicarsi alla pittura e portando nella sua vita un nuovo monaco che possa insegnarle quell'arte in cui Athelstan eccelleva.

I riflettori restano però puntati sulla Francia e sul destino di Rollo: gestita in quest'episodio per lo più in chiave comica, la trasformazione del fratello di Ragnar in Duca di Normandia procede per gradi e parte da un sofferto taglio di capelli che scatena le risa della Principessa Gisla e del pubblico grazie soprattutto allo spirito della performance di Clive Standen: fra intrighi di corte e piani militari goffamente abbozzati per problemi di lingua, le leggerezza delle scene parigine potrebbe annuvolarsi molto presto.

Leggi su cinefilos/serietvVikings 4×02 recensione dell’episodio con Clive Standen

Brie Larson, una nuova stella per il sogno americano

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La magica notte di Leonardo DiCaprio, ma anche quella di Brie Larson: avvolta in un semplice e leggiadro abito blu navy impreziosito da una cintura di preziosi e da un'acconciatura sobria ma elegante, la radiosa protagonista di Room ha ritirato il suo primo Oscar da attrice protagonista, un riconoscimento giunto alla sua sua prima nomination e sin dall'inizio dato per scontato, ma non per questo meno meritato grazie alla straordinaria performance dell'attrice nei panni della giovane madre Joy Newsone.



La storia di Brie è di quelle che ben si iscrivono nella realizzazione del grande sogno americano: nata a Sacramento l'1 ottobre 1989, Brianne Sidonie Desaulniers ha solo 7 anni quando si trasferisce a Los Angeles per vivere in uno squallido monolocale con la sorella e la madre, disoccupata e in grosse difficoltà economiche; è proprio la necessità ad avvicinarla ancora bambina alla recitazione, quando compare per la prima volta in uno spot parodia dedicato alle Barbie nel Tonight Show di Jay Leno. Dopo varie apparizioni pubblicitarie, Brie approda al suo primo lavoro importante sul piccolo schermo nel 2001, quando viene scelta per il ruolo di una delle figlie del protagonista Bob Saget nella sitcom Raising Dad: sul set ci sono anche le ancora sconosciute Kat Dennings e Meagan Good.


Cambiato il suo nome in Larson, nome di famiglia molto più semplice da ricordare e pronunciare che sceglie anche in onore della popolare bambola americana Kirsten Larson, nel 2004 Brie inizia una serie di apparizioni cinematografiche che la vedranno spesso nei panni della ragazza del liceo popolare, vanitosa e insopportabile a confronto con una più genuina protagonista, come in Trent'anni in un secondo (con lei c'era anche Ashley Benson di Pretty Little Liars) o Sleepover; fra un provino e l'altro, la Larson proverà anche senza successo a ottenere il ruolo principale in film molto popolari come Thirteen e Juno, non riuscendo però a spuntarla contro Evan Rachel Wood e Ellen Page.

Nel 2009 ottiene il ruolo di Kate Gregson nella serie tv di Diablo Cody United States of Tara, grazie al quale ha l'opportunità di far notare nuovamente le sue qualità musicali: nel 2005 aveva già infatti inciso un album pop intitolato Finally Out of P.E., anche se per sua stessa ammissione Brie non ha mai creduto fino in fondo nell'opportunità di costruirsi davvero una carriera come cantante; il cinema le offrirà ancora una volta l'occasione di esibirsi in grande stile nel 2010 con Scott Pilgrim vs TheWorld di Edgar Wright, dove completa di una chioma biondo platino interpreta la temibile ex di Scott Envy Adams lanciandosi in una scatenata performance.


Fra il 2010 e il 2012 Seguono piccole parti in produzioni di fama come lo Stravagante mondo di Greenberg di Noah Baumbach e l'irriverente 21 Jump Street, dove affianca il duo composto da  Channing Tatum e Jonah Hill nel ruolo della studentessa appassionata di recitazione Molly Tracey, alternate a pellicole di minore impatto come Rampart, una sceneggiatura di James Elroy con Woody Hallerson protagonista, e The Spectacular Now, romance con gli ancora poco noti Miles TellerShailene Woodley. 

Nel frattempo è coautrice e coregista dei corti The Arm, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Sundance Film Festival, e Another short, di cui è anche protagonista: in occasione dell'uscita del film dichiara di essere molto interessata alla scrittura e alla regia, forse più che alla recitazione.

Nel 2013, Joseph Gordon-Levitt la sceglie per interpretare il ruolo di Monica Martello, sorella del protagonista, nel suo debutto alla regia Don Jon: una ragazza apparentemente disinteressata che passa l'intera pellicola con gli occhi fissi sullo schermo del suo cellulare interrompendo solo per aiutare Jon a capire cosa voglia dalla sua vita e dall'amore, un piccolo ruolo che però consente forse per la prima volta a Brie di poter lavorare davvero sulle sfumature tutte interiori di un personaggio complesso e apparentemente insignificante.


Un anno dopo attira l'attenzione della critica grazie al cinema indipendente di Short Term Twelve, un lavoro difficile che affronta il tema della violenza su minori e delle tendenze autolesioniste degli adolescenti: la parte di Grace, consulente in un centro per il recupero di ragazzi difficili costretta a combattere contro il suo stesso oscuro passato e incapace di aprirsi fino in mondo all'amore e alla felicità che il futuro sembrerebbe riservarle le permette di vincere il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival del film di Locarno.

In attesa di un ruolo che segni il balzo definitivo nella sua carriera, Brie Larson recita in The Gambler, pellicola finita straight to video dove interpreta dove una brillante studentessa universitaria nonchè amante del protagonista Mark Walberg, Un Disastro di Ragazza di Jude Apatow e Digging For Fire, film indipendente con Rosemarie DeWitt e Anna Kendrick.

Il momento della consacrazione arriva, finalmente, con Room di Lenny Abrahamson, una produzione di Canada e Irlanda tratta dal romanzo Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue, qui anche in veste di sceneggiatrice.


Il ruolo di Joy, derubata dell'innocenza e della gioventù da un maniaco che l'ha tenuta segregata per ben 7 anni in un capanno dove poter abusare di lei liberamente e senza scampo è un lavoro che mischia nervosismo e rassegnazione, la consapevolezza di essere a un passo dall'abisso e di non poter mollare la presa solo per amore di Jack(bravissimo il piccolo Jacob Tremblay), figlio profondamente amato e ansioso di conoscere quel mondo che credeva chiuso al sicuro in una stanza; dopo la prima tesissima parte dedicata alla cattività e alla fuga, la prova della Larson si fa più ardua quando il ritorno di Joy nel mondo reale si rivela traumatico e insostenibile più della prigionia stessa, lasciando la giovane mamma in un mondo oscuro scritto nel vuoto del suo sguardo assente: dopo aver collezionato tutti i più importanti riconoscimenti nell'ultima stagione dei premi, l'Oscar è arrivato con facilità e senza esitazioni.


Ora che le luci dell'After Party si sono definitivamente spente, il miglior augurio che possiamo fare a Brie Larson è di riuscire a continuare su questa strada e trovare altri interessanti progetti di pregio in cui mettere a frutto il suo talento, senza dimenticare i film indie che l'hanno aiutata lungo il cammino e non escludendo nessuna possibilità: dopo la straordinaria prova di Room, nessuno potrebbe aspettarsi diversamente.

Vikings 4x03: Mercy

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Pietà, pietà, pietà: un'invocazione semplice, conosciuta al cristianesimo ma difficilmente comprensibile per uomini pagani e abituati ad affermare con la forza la propria supremazia, senza lasciarsi sopraffare da sentimenti che potrebbero rallentare la capacità di un grande guerriero di dimostrare il suo valore: il terzo episodio della quarta stagione di Vikings intitolato Mercy ricollega il destino di Ragnar a quello di Re Ecbert sotto la luce di un ricordo la cui fiamma è ancora viva nella memoria di entrambi, sovrani ambiziosi e spesso crudeli ma incredibilmente affascinati dall'energia positiva della conoscenza incarnata dal personaggio di Athelstan.


Per quanto l'episodio segni il ritorno di Lagertha, ben lieta di concedersi a Kalf dopo che questi aveva difeso i suoi diritti su quel feudo che un tempo le apparteneva completamente, il suo amante cospira già dietro l'angolo per uccidere Bjorn ed estendere le proprie brame di conquista eliminando pericolosi rivali: non c'è dubbio che la nostra valchiria si accorgerà presto dell'inganno preparando la propria vendetta, ma al momento sembra che per ragioni meramente logistiche (non trovandosi a Kattegat e non essendo direttamente coinvolta in nessuno degli altri due fronti principali della serie alias Inghilterra e Francia) la sua storia personale sia destinata ad essere messa da parte e a non riuscire a sostenere il peso delle altre vicende.

Impossibile non pensare a The Revenant guardando Bjorn lottare e uccidere un orso tutto da solo armato di un semplice coltello da caccia: una scena ben costruita e ben girata, che regala al giovane Alexander Ludwig l'occasione di emergere rispetto agli altri membri del cast e che dimostra come il figlio di Ragnar non abbia alcuna paura di affrontare il braccio del comando e prendere le redini del regno (la verosimiglianza del momento, considerandone il valore simbolico e senza incedere nelle stesse polemiche che hanno interessato la resistenza fisica del personaggio interpretato da Leonardo DiCaprio conta molto poco).

A Kattegat, Ragnar continua a essere del tutto immerso nel dissidio con Floki: la tortura che gli ha imposto è terribile, ma mai quanto la scoperta della morte di quella figlia per la quale lui stesso aveva scelto un nome nefasto e segnato sin dall'inizio da sventure. Impegnato in un sottile gioco psicologico per riuscire a riconquistare le grazie della nuora Judith anche Re Ecbert si abbandona come accade spesso a Ragnar al ricordo di Athelstan e di come la sua presenza, foriera di pace e serenità nel suo mondo di torbidi intrighi fosse riuscita a restituirgli la luce di un divino capace di andare oltre i limiti del cristianesimo e del paganesimo: Athelstan appare a entrambi come una visione mistica invocando pietà e misericordia, in una scena molto efficace che ci dà anche l'opportunità di rivedere per pochi minuti il compianto monaco interpretato da George Blagden che tanto ci aveva aiutato ad approfondire la conoscenza degli uomini del Nord. Ragnar segue le parole dell'amico, ma se anche Ecbert manterrà lo stesso proposito nei confronti della regina Kwenthrith è ancora tutto da vedere.

Riserviamo infine qualche parola al trattamento del Duca di Normandia; vedere Rollo esasperarsi comicamente alla corte di Francia è sempre divertente, ma forse sarebbe ora che l'Orso guerriero iniziasse davvero ad acquistare quello spessore e quella consapevolezza che tanto attendiamo, completando la sua trasformazione in condottiero franco e vincendo finalmente le resistenze della bella Principessa.



Leggi su cinefilos/serietv: ‪Vikings‬ 4x03 recensione dell'episodio con ‪Alexander Ludwig‬

Poet's Corner No. 29

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When weary with the long day's care,
And earthly change from pain to pain,
And lost, and ready to despair,
Thy kind voice calls me back again:
Oh, my true friend! I am not lone,
While then canst speak with such a tone!

So hopeless is the world without;
The world within I doubly prize;
Thy world, where guile, and hate, and doubt,
And cold suspicion never rise;
Where thou, and I, and Liberty,
Have undisputed sovereignty.

What matters it, that all around
Danger, and guilt, and darkness lie,
If but within our bosom's bound
We hold a bright, untroubled sky,
Warm with ten thousand mingled rays
Of suns that know no winter days?

Reason, indeed, may oft complain
For Nature's sad reality,
And tell the suffering heart how vain
Its cherished dreams must always be;
And Truth may rudely trample down
The flowers of Fancy, newly-blown:

But thou art ever there, to bring
The hovering vision back, and breathe
New glories o'er the blighted spring,
And call a lovelier Life from Death.
And whisper, with a voice divine,
Of real worlds, as bright as thine.

I trust not to thy phantom bliss,
Yet, still, in evening's quiet hour,
With never-failing thankfulness,
I welcome thee, Benignant Power;
Sure solacer of human cares,
And sweeter hope, when hope despairs!

To Imagination
Emily Brontë

Vikings 4x04: Yol

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Resistere al cambiamento e al sincretismo fra culture, incoraggiare le tradizioni degli antenati e non smarrire mai la propria via verso un destino di grandezza già scritto: con lo spettacolare rituale per il Solstizio D'inverno, il quarto episodio di Vikings continua a giocare con lo scontro fra culture ma in modo meno marcato che in passato, quasi consapevole che prima o poi, che Ragnar sopravviva o meno, la sacralità di quella civiltà vichinga che tanto abbiamo imparato ad amare finirà per lentamente svanire e collassare sotto il peso del cristianesimo e delle brame di conquista di altri uomini.

Ben lontano dall'essere l'uomo e il capo che era un tempo, Ragnar ha ormai smesso da tempo di amare Aslaug: i due non concordano sul modo in cui crescere il piccolo Ivar e nonostante il tentativi di Ragnar di trattare il bambino come ogni altro dei suoi figli l'atteggiamento delle madre gli impedisce di avere una qualsiasi influenza sulla sua educazione. Dietro il comportamento di Aslaug c'è molto di più della consapevolezza e rassegnazione verso la disabilità del figlio: Ragnar non è più il vero capo del suo popolo, la sua predilezione per il prete cristiano Athelstan ha distrutto ogni sua speranza di entrare nel Valhalla e l'unico modo per permettere ad Ivar di diventare un vero vichingo è affidarlo a Floki, perchè lo istruisca nell'odio verso quel Dio cristiano che sembra voler minacciare a gran voce la solidità dei cancelli della grande sala di Odino; una scelta comprensibile ma anche profondamente scorretta, nei confronti di un marito che aveva appena risparmiato la vita dell'ex amico senza però dimenticare quanto accaduto in passato.

Come sempre assorbito dalla sua naturale predilezione per il nuovo, Ragnar sembra particolarmente colpito da una schiava di origine orientale che Aslaug aveva acquistato fra i prigionieri di Parigi: vedremo se questo nuovo personaggio sarà in grado di riaccendere in positivo lo spirito combattivo del re vichingo, minacciato sul fronte interno da un misterioso sovrano di nome Harald Fairhair che dichiara di voler estendere il suo dominio su tutta la Norvegia. Anche Bjorn impegnato in una battaglia personale contro Kalf per la propria vita e la propria Leadership: il fatto che a Lagertha vengano riservati pochi minuti di screentime non fa presagire nulla di buono per il trattamento del suo personaggio, sempre più marginale in questa stagione.

Francia e Inghilterra si rivelano invece essere particolarmente promettenti per ragioni ben diverse: nel Wessex, il ritorno di Kwentrith e del figlio è un'ottima occasione per ritirare fuori il personaggio di Re Aelle, mosso da un profondo odio nei confronti di Ragnar e deciso a distruggerlo con le sue mani. I Franchi hanno invece di che festeggiare grazie allo scoppio della passione fra Rollo e Gisla, che visto l'impegno del marito per imparare la cultura Franca e difendere la patria della moglie a qualunque costo non può che lasciarsi rapidamente conquistare dal Neo Duca: scene romantiche prima e comiche poi ma mai gratuite o fastidiose, anche se adesso il momento per Rollo di dimostrare con la spada la forza del suo proposito è ormai giunto.

‪Leggi su cinefilos/serietv: ‎Vikings‬ 4x04 recensione dell'episodio con Travis Fimmel

Vikings 4x05: Promised

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La notizia del rinnovo di Vikings per una quinta stagione da 20 episodi non ci coglie certo di sorpresa: la serie scritta da Michael Hirst ha successo e continua ad essere molto amata, prima serie originale di History Channel e indiscusso successo di un canale che ha avuto la forza di rischiare con un prodotto in grado di mixare col giusto equilibrio intrigo, avventura e ricostruzione storica: giunti al quinto episodio della quarta stagione non possiamo però evitare di domandarci se la scelta di raddoppiare l'arco della serie sia stata effettivamente saggia, considerando quanto questo stia costando a una lenta progressione degli eventi e del percorso personalissimo dei singoli personaggi.

La figura di Ragnar Lothbrok, un tempo leader carismatico pronto a lanciarsi in ambizione avventure e viaggi per mare continua a restare rinchiusa in un bozzolo di stanchezza e disillusione, un uomo che persa la lealtà degli amici e della moglie non può che rifugiarsi in sè stesso e negli incubi che lo tormentano: la presenza di Yidu dovrebbe rappresentare un catalizzatore importante per la sua personalità, ancora incuriosita e affascinata da civiltà sconosciute, quanto per il suo desiderio ormai rimasto inappagato da tempo (Aslaug è diventata praticamente un'estranea), ma la Cina è troppo lontana per essere più che un semplice miraggio e non è chiaro se gli autori stiano cercando di dare un'ultima scossa a un personaggio che ha dato alla serie tutto ciò che possedeva.

L'ombra di Harald Finehair continua ad allungarsi su Kattegat e nonostante il re abbia promesso la sua alleanza in vista di un nuovo attacco a Parigi la diffidenza nei suoi confronti è giustamente notevole: completamente assorbita dall'educazione di Ivar, Aslaug dimostra ancora una volta di essere una donna del suo tempo e di essere una degna figlia della sua gente, continuando ostinata nel suo progetto di fare del figlio un vero vichingo senza insegnargli a distinguere fra giusto e sbagliato e convincendolo che usare la violenza e la durezza lo aiuteranno a ottenere ciò che la vita vorrebbe negargli.

A riemergere invece con nuova dignità è il personaggio di Lagertha, la valchiria che tutti abbiamo amato fin dal primo episodio e che sembrava destinata ad essere messa da parte per il resto della stagione, quando invece stava solo aspettando il momento propizio per riaffermare la propria supremazia sul feudo che Kalf le aveva portato via.

Mentre Bjorn prepara la sua vendetta contro chi ha tentato di reclamare la sua vita nella neve ostile, il fronte parigino e quello britannico continuano a muoversi a colpi di piccoli intrighi di corte: si può e si deve fare di più, ma nel bene e nel male la stagione è ancora lunga.



Vikings 4x06: What Might Have Been

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Che cosa sarebbe successo se Ragnar Lothbrok non avesse seguito la sua curiosità e la sua irrefrenabile sete di scoperta e avventura? Che cosa sarebbe accaduto se avesse continuato a fare il contadino, devoto a quella moglie lasciata tanti anni e ai figli, ma anche a quell'amico che aveva pagato il prezzo della sua amicizia con una morte violenta? Dubbi laceranti che non hanno voce, ma che si nascondono bene nello sguardo stanco e allucinato di Travis Fimmel, nel sesto episodio di vikings intitolato per l'appunto What might have been.

Quello che ci troviamo di fronte è un condottiero sempre più stanco e stordito, apparentemente distratto dal diversivo della sua nuova compagna cinese ma in realtà più che mai tormentato dagli errori commessi in passato, dal peso delle responsabilità maturate in tanti anni di lotte e scontri, da una felicità coniugale ormai perduta con una regina che cova per lui solo risentimento e che consacra morbosamente sè stessa alle cure per il figlio che sembra avere più bisogno di lei: fra storia e leggenda sappiamo che Ivar diventerà un temibile condottiero nonostante la sua disabilità, ma sarà interessante scoprire come la serie intenda sfruttare il rapporto malato che Aslaug sta deliberatamente instaurando con lui, ora più che mia considerato il rientro in scena di quel misterioso viandante che in passato aveva guarito i dolori fisici più terribili a cui il bambino era sottoposto. 

Dopo aver ucciso Kalf, Lagertha ha dimostrato di essere ancora una valchiria coerente a sè stessa e di voler ritagliarsi con forza un posto nella storia di Vikings, sebbene le circostanze presenti vorrebbero spingerla sempre più ai margini della trama principale. L'eroina dai biondi capelli non ha mai dimenticato Ragnar nè la vita relativamente semplice che conduceva col marito in un umile capanna sul fiume, ma neppure gli spettatori: vedere Ragnar intraprendere il viaggio che lo condurrà per l'ennesima volta a Parigi nel rimpianto di una vita ormai troppo lontana per essere raggiunta non ci lascia certo indifferenti, come del resto il suo sguardo quasi rassegnato alla scoperta che il fratello ha scelto di passare dalla parte del nemico, pronto per una resa dei conti che attendevamo da tempo; forse la scelta di aumentare il numero di episodi non è stata saggia, ma la passione per questo Medioevo così variopinto e contraddittorio è ancora molto forte.

Leggi su cinefilos/serietvVikings 4×06 recensione dell’episodio con Travis Fimmel

Vikings 4x07: The Profit and The Loss

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Le navi seguono il sole e viaggiano sempre spedite sul fiume, gli uomini ambiscono ancora al bottino e si buttano a capofitto nell'avventura come degni figli di Odino, ma le cose non sono più com'erano una volta: nel settimo episodio di Vikings intitolato The Profit And The Loss assistiamo all'ennesima dimostrazione di come Ragnar Lothbrok sia ormai un leader stanco e un sognatore disilluso, schiacciato dal peso degli errori commessi e dalla perdita di ciò che amava davvero al punto da cercare rifugio senza tregua nelle sostanze stupefacenti che Yidu, ormai più importante come fornitrice di fiducia che come nuova compagna a cui confidare i propri affanni, ha continuato a procurargli fino a questo momento.

Arrivati alle porte di Parigi, la scoperta del tradimento di Rollo viene accolta quasi con ironica rassegnazione, nella consapevolezza che non esiste lealtà che non possa essere corrotta e comprata nè che esista un legame capace di sopravvivere all'usura del tempo, nemmeno quello fraterno: Il Duca di Normandia sembra aver trovato il suo posto, segue e dirige la battaglia al fianco di una Principessa finalmente libera di palesare il suo spirito guerriero: reso magistralmente com'è tradizione nella serie lo scontro è gelidamente spietato, Rollo difende Parigi con tutti i mezzi a sua disposizione e senza particolare sforzo, ma la sua amarezza alla vista di quelli che un tempo erano i suoi compagni d'arme e adesso sono diventati obiettivi da abbattere è ben visibile sul suo volto; senza la guida di Ragnar, del tutto allo sbando e in preda a una crisi d'astinenza che gli riempie la bocca di sangue e amarezza, ogni tentativo di espugnare la città soffoca nelle paludi sotto il risoluto grido di guerra di Rollo.

Mentre il sole continua a calare su Ragnar Lothbrok, a Kattegat il ritorno di Harbard ci costringe nuovamente a confrontarci con la componente mistico religiosa sempre presente nella serie: i poteri di Harbard si sono già manifestati ampiamente, ma l'allucinazione di Floki introduce con prepotenza l'immagine di una premonizione pericolosa su come il destino di Aslaug si sia intrecciato a quello del misterioso viandante.

Nel Wessex, i piani di Re Ecbert per estendere il suo potere continuano senza troppi scossoni: lontani dal centro dell'azione gli anglosassoni fanno quello che possono, ma è difficile stabilire per quanto ancora la loro linea narrativa potrà reggersi sulla sola grandezza della performance di Linus Roache.

Leggi su cinefilos/serietvVikings 4×07 recensione dell’episodio con Clive Standen


Brooklyn

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"You have to think like an American. You'll feel so homesick that you'll want to die, and there's nothing you can do about it apart from endure it. But you will, and it won't kill you. And one day, the sun will come out you might not even notice straight away-it'll be that faint. And then you'll catch yourself thinking about something or someone who has no connection with the past. Someone who's only yours. And you'll realize that this is where your life is."

Ancora gli anni 50', ancora una ragazza desiderosa di trovare la propria strada e di liberarsi della morsa di una società tutta occhi e orecchie, invecchiata malamente fra buon costume e ipocrisia: nella stessa epoca di Therese, vera protagonista dello splendido Caroldi Todd Haynes, anche la giovane Eilis Lacey deve affrontare da sola la sfida di una vita imbarcandosi tutta sola sulla nave che la porterà in America, col ricordo della nativa Irlanda riposto al sicuro nel profondo dei suoi grandi occhi verdi insieme all'amore per una sorella maggiore devota da sempre alla sua felicità.


Candidato outsider nella categoria miglior film, miglior attrice protagonista e miglior sceneggiatura originale, Brooklyn di John Crawleyè stato in grado di strappare la nomination più importante non senza scalpore considerando il prestigio di alcune pellicole rimaste fuori gara(Carol in primis), ma non si può dire che tale risultato sia stato raggiunto immeritatamente: la penna di Nick Hornby aveva già dato a un'incantevole Carey Mulligan l'opportunità di illuminare la grigia Inghilterra dei primi anni 60' in An Education, ma dopo il suo esordio in Espiazione e una carriera decennale costellata di lavori più o meno riusciti ma comunque difficilmente dimenticabili, Saoirse Ronan non ha certo bisogno di presentazioni; sulla delicatezza della sua performance, calibrata sulla forza e caparbietà tutte irlandesi di una protagonista dai sogni genuini ma non per questo meno complessa e interessante, Hornby trova nel romanzo di Colm Tóibín un'altra eroina dalla personalità indipendente, pronta a chiudere in una stanza le lacrime della sua solitudine per provare ad affrontare a testa alta il peso del quotidiano in una terra straniera: è la nostalgia di un paese lontano da sempre chiamato casa, il vuoto di chi finisce in una Terra di Nessuno consapevole di non appartenere a nessun luogo finchè fiducia ed esperienza non consentiranno finalmente di piantare nuove radici, vincere la timidezza sul lavoro tanto quanto nelle amicizie e lasciarsi alle spalle ciò che è stato; nell'esperienza di Eilis vediamo la malinconia di un popolo di viaggiatori che può concedersi di soccombere alla nostalgia solo per un attimo, il tempo di una canzone cantata in una lingua persa sull'Atlantico o di una lettera da stringere al petto anche se arrivata troppo tardi.

Un romanzo di formazione semplice e pulito, illuminato dalla tenerezza di una gioventù perennemente in bilico fra l'inconscio desiderio di non abbandonare l'adolescenza e il bisogno di trovare la forza di crescere, costretta a domandarsi insistentemente se scelte fatte in principio con grande determinazione debbano essere portate avanti fino in fondo o se la via da percorrere verso la felicità e il futuro sia diversa da quella che aveva immaginato: perchè nel suo vagare alla ricerca di conforto a volte il cuore si spacca senza volerlo, reclama i colori di mari e strade a cui siamo appartenuti per tanto tempo e che non vogliono lasciarci liberi di andare, si culla nel sogno di vite non vissute credendo che possano diventare la propria, si lascia incantare dal sorriso di un ragazzo gentile per cercare il conforto che la mancanza non può donare. Che il rivale per il cuore di Eilis debba essere un delizioso Domhnall Gleeson e avere dalla sua l'egoistico affetto di un paese intero per una delle sue figlie fa parte del gioco: perchè l'amore è attrazione, complicità e intesa, ma anche una scelta che non concede vie di mezzo e si porta dietro il peso e il sollievo di una vita intera, quella che sentiamo di abbracciare nonostante le possibilità sembrino infinite e tutte parimenti allettanti.

La compostezza del racconto non concede particolari guizzi di regia o sceneggiatura, ma il contrasto fra Nuovo e Vecchio mondo regge al meglio grazie all'interpretazione della Ronan e ad una galleria di costumi e ambienti puntuali e ben curati, smorzati e polverosi negli scenari irlandesi quanto caldi e luminosi in quelli americani: dopo aver accompagnato l'avventura senza ritorno di Christopher McCandless in Into The Wild Michael Brook segue il viaggio di Eilis, meno indomito e radicale ma altrettanto votato a libertà ed emancipazione, con una colonna sonora dolcissima che suona di luoghi perduti e persone scomparse, ricordi sopiti e desideri irrealizzati, lasciati svanire perchè necessario ma egualmente dolorosi e strazianti.

Con una punto di favore in più verso il pubblico nostrano per aver finalmente offerto un ritratto degli italiani lontano dalla caricatura e dal classico quadretto Pizza e Mandolino, Brooklyn colpisce e emoziona scansando la via del melodramma esasperante e aggrappandosi con coerenza e discrezione alla volontà della sua protagonista, uscita vittoriosa dalla nebbia della memoria per ricominciare a scrutare con fierezza il proprio orizzonte: per trovare il proprio posto e andare avanti fino in fondo, anche se la quiete del mare d'inverno non si stancherà mai di chiamarci a gran voce.


Note:

Oscarometro: la statuetta per il miglior film era pura utopia, ma Saoirse avrebbe meritato tutti i premi possibili.

Vikings 4x08: Portage

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La violenza sul campo di battaglia è sempre stata una costante che in Vikings ha quasi sempre saputo conciliare il gusto dello spettacolo con un sincero avanzamento della trama e della psicologia dei personaggi, ma il dispiegarsi degli eventi nell'ottavo episodio di una quarta stagione ormai vicina al suo iato (dopo il decimo episodio) ci costringe a confrontarci con la repentina conclusione di una serie di trame e sottotrame che dopo averci impegnato a lungo si sono clamorosamente dissolte in un nulla di fatto, dimostrando di servire solo a rimpolpare di ulteriori scenari la leggenda scritta da Ragnar Lothbrok.

È proprio Ragnar, sempre più schiacciato dalla dipendenza e dal peso che la sua lunga scalata al potere gli ha imposto di pagare, a dovere lavare via con le sue mani lo spettro del fallimento rappresentato dal personaggio di Yidu: l'hype intorno all'introduzione di questo personaggio, straniero come Athelstan e fonte di curiosità per il nostro leader vichingo era molto alto, ma la sua repentina uscita di scena ci ha dimostrato che la misteriosa figlia dell'imperatore altro non era che un banalissimo diversivo, necessario per destabilizzare ulteriormente la figura di Ragnar: i vichinghi non sono mai arrivati in Cina, ma ci aspettavamo comunque qualcosa di più.

Le sorprese che riserva il Regno del Wessex segnano una svolta radicale nel gioco dei troni locale ma apparentemente sembra che le conseguenze di tali manovre non andranno a relazionarsi a breve termine col destino dei vichinghi: psicopatica e libertina la Principessa e poi Regina Kwenthrith era un personaggio promettente o quantomeno interessante come curioso fattore di disturbo nelle interazioni fra Wessex e Mercia, ma averla eliminata così brutalmente dopo averla resa tanto importante nelle stagioni precedenti è una decisione che lascia perplessi: l'intera scorsa stagione aveva alimentato la promessa di una sua attiva presenza sulla scacchiera grazie anche alla nascita di Magnus, ma a questo punto è difficile dire quando la trama del Wessex e i personaggi di Ecbert e Judith torneranno a essere più di meri riempitivi. 

Kattegat è sempre più lontana e le vicende di Aslaug e Harbard ci danno solo il piacere di vedere la regina più odiata dell'Alto Medioevo diventare furiosa con l'amante per il modo in cui lui l'ha trattata, ma la presenza del misterioso viandante ha davvero uno scopo ulteriore? 

La scalata al potere di Rollo fra le fila dei Franchi si arricchisce di un altro gradino con la dipartita del Conte masochista e braccio destro dell'Imperatore, un'uscita di scena che avviene senza sorpresa alcuna e che lascia campo libero al Duca di Normandia e alla sua giovane sposa, apparentemente in attesa di un erede: giochi di potere, intrighi di corte, colpi di scena che seguono altri colpi di scena, nell'attesa di capire se la diluizione delle vicende per ben 20 episodi sarà valsa davvero la pena.

Leggi sucinefilos/serietv: Vikings 4×08 recensione dell’episodio con Travis Fimmel

Vikings 4x09: Death 'll Round

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Tanti scenari slegati fra loro, tante pedine schierate che si muovono senza mai allontanarsi troppo dalle rispettive postazioni, tanta carne al fuoco che al momento non riesce ad approdare da nessuna parte e non fa che aumentare il senso di dispersione: vorremmo essere più indulgenti con la quarta stagione di vikings, vicinissima allo iato che la porterà in pausa per alcuni mesi in attesa di consegnarci i dieci episodi decisivi per far maturare il cuore di quest'annata, ma nonostante la consapevolezza che quella che stiamo attraversando sia soltanto una fase preparatoria in attesa di ciò che verrà, rimane un forte rammarico nel testimoniare che la scelta di raddoppiare l'arco narrativo stia nuocendo alla freschezza degli eventi quanto allo sviluppo dei personaggi.
A soffrire particolarmente sono il fronte di Kattegat e quello del Wessex, sempre più remoti e lontani e sempre più chiusi nel proprio microcosmo fatto di lotte di potere (Wessex) e trascuratezza (Kattegat): la nuova condizione di Re Ecbert, proclamato re di Wessex e Mercia e per questo superiore per potere e prestigio all'insoddisfatto e invidioso Aelle sembra aprire nuovi scenari di lotte intestine, ma la situazione progredisce così lentamente che pur essendo un piacere veder recitare Linus Roache iniziamo a temere che il momento in cui le vicende britanniche torneranno ad essere davvero coinvolgenti sia ancora lontano; con l'arrivo del piccolo Alfred a Roma, la possibile apertura di un fronte ulteriore con Papa Leone potrebbe complicare ulteriormente la situazione.

A Kattegat, la solitudine di Aslaug è ormai esplosa in una condotta infantile, egoistica e del tutto fuori controllo: abbandonata da Harbard, assorbita dal rapporto ossessivo con un Ivar che sta prendendo solo il meglio dalla madre, la regina perde la cognizione del tempo e anche di chi le sta intorno, trascura il piccolo Sigurd completamente abbandonato a sè stesso assiste impotente al crollo della madre, lascia che la piccola Siggy, ultimo legame che vikings aveva mantenuto con i personaggi della stagione precedente sparisca nel peggiore dei modi possibili: per il momento, abbiamo visto più che abbastanza.

Nei pressi di Parigi, Ragnar e i suoi indugiano e aspettano il momento opportuno per attaccare nuovamente la città: il re è un uomo distrutto, divorato dall'astinenza e dimentico dei propri doveri, guidato ormai solo da un senso di vendetta verso il fratello da saziarsi in una sfida che quello che un tempo avevamo definito l'Ulisse vichingo non è per nulla in grado di vincere: i fratelli Finehair si aggirano con aria minacciosa senza aver ancora messo in chiaro le loro intenzioni, Bjorn riesce a sbarazzarsi del suo antico nemico grazie alla fedeltà di Torvi (sarà davvero amore o era tutto calcolato sin dall'inizio?) , mentre la nostra amatissima Lagertha paga ancora una volta il prezzo di essere donna ed è costretta a rimboccarsi le maniche per risorgere nuovamente e ricominciare, personaggio splendido e amatissimo anche con pochi minuti di Screentime.

A Parigi, l'intrigo di corte continua a essere l'unico motivo percorribile, ma ora che lo scontro con Ragnar si avvicina le cose potrebbero finalmente cambiare: c'è bisogno di progredire, e in fretta.
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